Le organizzazioni umane e la violenza
È tutta questione di… chiarezza e coraggio.
Ognuno di noi vive all’interno di una vasta gamma di organizzazioni, grandi e piccole, dalla famiglia alla scuola, dalle imprese agli ambienti di lavoro, dagli enti pubblici ai social che si frequentano.
Ogni struttura organizzativa influenza la nostra vita e le nostre attività quotidiane, e ci permette di negoziare, riaffermare e talvolta anche rivedere l’organizzazione della struttura stessa.
L’Organizzazione designa le regole e la routine, sia formali che informali, che disciplinano l’attività quotidiana al suo interno, e se dovessimo pensare alle norme che la disciplinano molto probabilmente faremmo riferimento ai vari ruoli che ricoprono le persone all’interno dell’organizzazione, alle norme e alle aspettative dei diversi gruppi.
Per esempio, la struttura di un Dipartimento universitario include ruoli ricoperti dagli amministratori, dai collaboratori tecnici e dagli addetti alla manutenzione, dai professori e dagli studenti. Ognuno di questi gruppi possiede norme e aspettative specifiche, associate al ruolo preciso che ricopre all’interno del Dipartimento stesso.
Affinché la vita professionale all’interno di un’organizzazione possa dipanarsi senza problemi è necessaria l’esistenza di regole formali, come possono essere i codici di condotta e le descrizioni professionali, e regole informali, le quali includono accordi tra gruppi di dipendenti su come, ad esempio, condividere al meglio gli spazi di lavoro oppure i propri computer.
Accade altrettanto all’interno di una famiglia, per quanto riguarda la suddivisione delle faccende domestiche oppure le modalità standardizzate, anche se non sempre codificate ufficialmente, attraverso cui comunicare fra genitori e figli.
Per renderci conto della dimensione antropologicamente rilevante di qualsiasi Organizzazione, vi propongo questi breve resoconto scientifico, che ritengo essere importante e rivelatore.
Nel 1999, alla Colombine High School di Littleton, in Colorado, due adolescenti uccisero dodici studenti e un professore, ferendo più di venti persone, prima di rivolgere le armi contro sè stessi. Dopo questo tragico episodio, la violenza nelle scuole degli Stati Uniti è diventata una vera emergenza nazionale e l’entità della carneficina ne ha fatto, all’epoca, il caso più drammatico di violenza scolastica mai verificatosi nella storia degli Stati Uniti.
La sparatoria avvenuta in questa università, però, fu solo la più sanguinosa rispetto alle oltre venticinque che hanno sconvolto gli Stati Uniti tra gli anni ’90 e i primi anni 2000.
In effetti, nel 2007, uno studente ventitreenne uccise due suoi compagni in un dormitorio e altre trenta persone in un’aula della Virginia Tech, prima di togliersi la vita.
Situazioni ed eventi che hanno sollevato naturali preoccupazioni per la diffusione delle armi e le esplosioni di violenza nei campus universitari statunitensi.
Di fronte ai diversi tentativi condotti dai dirigenti scolastici, dai sopravvissuti e dai familiari delle vittime di spiegare questi eventi, è sorto spontaneamente un interrogativo: perché nessuno ha avuto il benché minimo sentore che questi studenti si stavano preparando a uccidere dei loro compagni? Dopo ogni evento tragico, i membri di qualsiasi comunità cercano di capire le eventuali cause che possono indurre alcuni individui a compiere delitti tanto atroci.
Nel solco di questa domanda si pone la ricerca di Catherine Newman e dei suoi dottorandi. L’autrice scopre (2004, Rampage: The social roots of school shootings, Basic Books, New York) l’esistenza di numerosi segnali in grado di presagire azioni violente da parte di studenti apparentemente non violenti.
Fra diversi segnali, il gruppo di ricerca evidenzia le scritte deliranti, le minacce ai compagni, precedenti disciplinari e maltrattamento di animali. Tutti questi sintomi erano stati regolarmente ignorati dagli insegnanti e dai dirigenti scolastici. La causa, secondo l’autrice, è insita in un problema di comunicazione che la ricercatrice definisce “perdita di informazioni“, ascrivibile alla struttura organizzativa delle scuole statunitensi.
Abbiamo osservato più sopra, che la struttura organizzativa fa riferimento alla vita routinaria che regola l’attività quotidiana di una qualsiasi istituzione. Alcune routine e pratiche standardizzate nelle scuole generano una perdita di informazione e possono allontanare i docenti e i dirigenti dalla possibilità di identificare gli studenti che sono mentalmente disturbati.
Per esempio, negli Stati Uniti, i dirigenti scolastici generalmente sono convinti che gli studenti trasferiti o promossi da una scuola all’altra debbano mantenere il diritto-possibilità di ripartire ex novo, per cui le loro schede disciplinari non seguono i loro spostamenti.
Una diretta conseguenza di questa convinzione è che il Dirigente di una scuola media non condivide quasi mai le informazioni su uno studente problematico con il dirigente, suo collega, di una scuola superiore. Inoltre, l’esistenza di rigidi confini tra scuola e comunità sociale impedisce quasi sempre ai dirigenti scolastici di venire a conoscenza degli incidenti disciplinari che si verificano al di fuori della scuola. Per ultimo, gli insegnanti di quasi tutte le scuole medie e dei licei vedono i propri allievi circa quarantacinque minuti al giorno e pochi di loro arrivano a frequentarli al di fuori dell’aula. Tutti fattori che contribuiscono a creare una situazione in cui le informazioni che riguardano gli studenti disturbati sono assai frammentate, nel senso che ognuno dei dirigenti e professori conosce solo un pezzo della storia biografica di questi giovani.
Se prendiamo quindi in considerazione la rigida struttura organizzativa delle scuole statunitensi, il livello di alienazione, di rabbia e il senso di frustrazione che ogni studente prova rischiano di perdersi nelle strette maglie di una organizzazione che limita fortemente il trasferimento di informazioni e quindi la comunicazione. Perciò, questi studenti passano quasi sempre inosservati fino a quando non commettono una follia. Ecco perché sarebbe necessaria una struttura organizzativa che contribuisse a limitare il più possibile la perdita di informazione sui ragazzi a rischio, in modo tale che gli studenti affetti da gravi turbe psichiche abbiano meno probabilità di passare inosservati.
Nella nostra nazione, fortunatamente, non siamo giunti a questi livelli di pericolosa espressione di violenza adolescenziale e scolastica, ma stiamo comunque assistendo ad una escalation di aggressività giovanile che potrebbe essere contenuta, prendendo proprio in considerazione i consigli che provengono da questa ricerca.
Alessandro Bertirotti si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio Statale di Musica di Pescara e laureato in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Firenze. È docente di Psicologia per il Design all’Università degli Studi di Genova, Scuola Politecnica, Dipartimento di Scienze per l’Architettura ed è attualmente Visiting Professor di Anthropology of Mind presso l’Universidad Externado de Colombia, a Bogotà e presidente dell’International Philomates Association. È membro della Honorable Academia Mundial de Educación di Buenos Aires e membro del Comitato Scientifico di Idea Fondazione (IF) di Torino, che si occupa di Neuroscienze, arte e cognizione per lo sviluppo della persona. Ha fondato l’Antropologia della mente (www.bertirotti.info).