Barbari di fuori e di dentro

𝐁𝐚𝐫𝐛𝐚𝐫𝐢 𝐝𝐢 𝐟𝐮𝐨𝐫𝐢 𝐞 𝐝𝐢 𝐝𝐞𝐧𝐭𝐫𝐨
Barbaro è chi mette in pericolo un orizzonte condiviso, chi sabota l’ordine su cui regge una società riconoscendosi come civiltà. Il barbaro verticale si riferisce ad un Assoluto di cui si è fanatici: un Dio, una Religione, un’Ideologia, una razza, una setta. Il barbaro orizzontale lo fa per l’onnipotenza dei desideri, che relativizza tutto all’infuori della propria vita. Non conta più il bello, il buono, il vero, il giusto ma solo il mio e quel che mi fa stare meglio. L’assoluto dei primi si barrica dentro la vita dei secondi. Il barbaro verticale agita un Assoluto; nella barbarie orizzontale ognuno diventa un Assoluto. I barbari verticali vengono in prevalenza da fuori, i barbari orizzontali crescono dentro i nostri confini.
La barbarie verticale non ha bisogno di grandi spiegazioni, è vistosa, si esprime col sangue, la sua manifestazione più alta è sgozzare; e non il nemico in guerra ma un simbolo, anche un cittadino inerme e disarmato; e non durante un’azione di guerra ma in pace, nel silenzio ovattato di una stanza, magari davanti ad una telecamera. Differenza abissale rispetto al barbaro orizzontale, che non uccide e non usa le armi.
Cos’è tipico della barbarie orizzontale? La decomposizione del tessuto civile, che viene magari presentata come liberazione dai vincoli; la dissoluzione di norme, eredità e comportamenti che viene presentata come emancipazione. Barbaro non è solo chi passa a vie di fatto, ma anche chi reputa che le situazioni di fatto o di forza abbiano pari se non maggior valore rispetto alle situazioni di principio, ai legami consolidati e ai rapporti consapevoli e consacrati. Quel che conta per il barbaro è dove ci conduce la vita, non dove noi la conduciamo. Un volere selvatico che si confonde con il desiderio, la pulsione e l’istinto, prevale sul volere coltivato, regolato, orientato da un disegno intelligente di vita. Questo è il passaggio dalla civiltà alla barbarie. Non vivere ma viversi addosso. La barbarie ha gradi diversi.
Barbaro è pure chi distrugge il primo asse di una civiltà, la struttura primaria su cui regge e si perpetua una civiltà: la famiglia, presentandola come il reperto arcaico di una civiltà passata. Non si conoscono civiltà che non abbiano dato valore alla famiglia e non abbiano anzi fondato la propria organizzazione sociale ed esistenziale sulla famiglia. Così non si conoscono civiltà che non siano fondate sull’amor patrio o su un comune senso religioso, anche variamente declinato. Non ci sono civiltà senza una traccia di religione civile. Non ci sono civiltà che non distinguano la luce dal buio, il bello dal brutto e dal funzionale; ogni civiltà coltiva una forma, riconosce una misura e stabilisce un confine con l’oscurità. Barbaro è il predominio della forza non solo sui principi, sulle forme e sui legami, ma anche sulla parola. Barbaro è chi misura la vita con la quantità, la forza, il meccanismo e non la qualità, l’intelligenza e la finalità. Il dominio della brutalità non sempre si presenta come violenza: a volte anche come potenza, come arroganza, come distruzione di assetti consolidati e tramandati. O come indifferenza al bello, insofferenza verso il buono, inavvertenza del giusto e irrilevanza del vero. Il barbaro, prima ancora di innalzare i suoi Dei, relativizza le civiltà, per distruggerle. Anzi, a volte, si limita alla pars destruens.
Ci può essere una barbarie nell’uso incivile della nostra superiorità tecnologica e giuridica, economica e militare. I bombardamenti sulle popolazioni civili, i tribunali che processano i vinti, le religioni e civiltà altrui calpestate, sono segni di barbarie. Perché negarlo? E’ più barbara la guerra tra due eserciti in divisa, con armi e regole accettate o la guerra totale che non risparmia territori, città e popolazioni e usa armi di distruzione di massa? Certo, è insensato vedere barbarie dappertutto e mettere tutti sullo stesso piano. Ci sono differenze incolmabili. Ma c’è una barbarie in agguato in Occidente, nelle sue viscere, che non possiamo negare.

(Contro i barbari, Mondadori, 2006)