𝐋𝐚 𝐬𝐨𝐥𝐢𝐭𝐮𝐝𝐢𝐧𝐞 𝐝𝐢 𝐮𝐧 𝐢𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐚𝐦𝐚𝐯𝐚 𝐥𝐚 𝐭𝐫𝐚𝐝𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞
Cinquant’anni fa usciva da Rusconi, Un paese umiliato. Era la radiografia spietata dell’Italia mortificata dalla “mezzacultura radical” che lo considerava un pese arretrato e incivile, perché legato alla sua tradizione civile e religiosa.
Continua a leggere👇
La solitudine di un italiano che amava la tradizione
di Marcello Veneziani
15 Ottobre 2023
Cinquant’anni fa usciva da Rusconi, Un paese umiliato. Era la radiografia spietata dell’Italia mortificata dalla “mezzacultura radical” che lo considerava un paese arretrato e incivile, perché legato alla sua tradizione civile e religiosa. L’autore era Rodolfo Quadrelli, un acuto scrittore e letterato, morto precocemente quarant’anni fa. Autore dimenticato, e negato per decenni dalla cultura dominante. Ma stamattina su la Repubblica è apparso un sorprendente ritratto di Quadrelli, a firma di Filippo La Porta, che ne riconosce il valore, pur nel suo ambito delle sue idee tradizionali. “L’Italia non è un paese moderno e non è detto che questa sia una disgrazia”. Con un incipit così, in pieno progressismo e in piena modernolatria, dove pensate che potesse finire Quadrelli? Nella segrete dell’oblio, maledetto tra gli oscurantisti, nel girone degli imperdonabili. Quadrelli morì all’età di 45 anni, forse si trattò di un suicidio, come quello di Guido Morselli alcuni anni prima. A pochi giorni di distanza in quel 1984 morì Giovanni Volpe, editore nel segno della Tradizione. Quadrelli torreggiava in quell’arcipelago di solitudini scontrose e antimoderniste che affiorò nella vita civile e culturale italiana di mezzo secolo fa dopo la bufera sessantottina. Alcuni di loro furono brillanti promesse mancate prematuramente: oltre a lui, penso a un filosofo cattolico come Emanuele Samek Lodovici o su altri versanti a Franco Pintore o Adriano Romualdi, tutti scomparsi in quegli anni, in età oscillanti sotto i quaranta o poco più. Quadrelli, milanese, insegnava in un liceo, era un cattolico di disparte, scriveva saggi e poesie, pubblicava da Vallecchi e da Rusconi, piaceva a Prezzolini e a Del Noce, dispiaceva a Umberto Eco ma non a Claudio Magris. Non era fascista e non si definiva conservatore, amava la tradizione, l’Italia genuina e “provinciale”, la cultura orale. La cultura di un popolo, scriveva, è quel complesso di valori, vissuti come verità, che appaiono dai riti, dai gesti, dai costumi, e che si esprime nell’oralità oltre che nella scrittura. Denunciava la perdita di identità e radici, l’eclissi del senso religioso e l’avvento del nichilismo, la sostituzione della tradizione con la storia (e non ha fatto in tempo a conoscere anche la sostituzione della storia con l’odiernità, il presente), paventava un nuovo totalitarismo e criticava l’Europa l’americanizzata. Si situava nel solco di Dante, che considerava anche filosofo, e riteneva che compito della poesia fosse scoprire la via “che si chiama per ognuno destino e tradizione per tutti”. Amava Eliot e Pound, Noventa e Solzenicyn, e riconobbe la grandezza e la contraddizione di Pasolini, “poeta maledetto perché vissuto in un’epoca in cui la poesia e la religione sono maledette”; amò i suoi ultimi scritti polemici e poetici e condivise la rivendicazione della poesia totale, scrivendo alla sua morte che “era dogmatico come tutti gli innocenti e come tutti i peccatori non ipocriti”. Il grande limite di Pasolini fu di non aver riscoperto l’idea di tradizione.
I libri di Quadrelli toccano la metafisica dei costumi, la filosofia delle parole e delle cose viventi, cercano il senso del presente e sono un amoroso viaggio nell’Italia profonda, “paese umiliato”, che viaggia verso il nichilismo. Non fu un reazionario perché a suo parere la redenzione del passato non si compie volgendosi ingenuamente indietro, come Orfeo che si volse verso Euridice e la perse per sempre; “piuttosto rinunciando ad osservarlo per riottenerlo nel futuro”. Compito del poeta per lui è rappresentare la tradizione per il proprio tempo e redimere il linguaggio dall’usura del tempo e dalla corruzione delle generazioni. Il poeta mette in salvo la parola, la riporta all’origine.
Poco o nulla si trova in giro delle sue opere: gli ultimi testi che rividero la luce nel terzo millennio furono “La tradizione tradita” che univa due saggi degli anni settanta e che sintetizza già nel titolo il senso dei suoi scritti, e “Lo studio della letteratura europea”. Qui Quadrelli scrive: “Troppe realtà sono state conculcate, fatte sparire, segretamente processate come in un grandioso processo staliniano: non basta riabilitare i morti, occorre dar voce ai vivi”. E auspica il ritorno a una cultura pubblica, non privata, di strada e di piazza, che colleghi l’interno all’esterno, l’intimo al mondo; quello è “uno dei segreti della felicità italiana ed europea”. Quadrelli non condivideva “lo spiritualismo igienico” dei paesi protestanti e il loro puritanesimo né si riconosceva in quell’odio verso la materia di matrice gnostica e “piagnona”; ma al contrario auspicava il ritorno a un sano “materialismo” nel senso aristotelico e tomista dell’incarnazione. E’ inutile precisare che qui materialismo sta per realismo, legame con la terra, la vita, la natura e la realtà e non col materialismo storico e dialettico. Come diceva Mayakowski: “Da quando domina il materialismo è scomparsa la materia”. E’ la stessa linea di Charles Péguy, Gustave Thibon, Marcel de Corte e tra i prelati del Cardinale Biffi e altri autori del realismo cristiano attenti alla dimensione concreta, terricola e carnale della vita.
Nei primi anni settanta in Italia stava condensandosi una grande cultura legata all’idea di tradizione, critica sia verso il potere dominante che verso i contestatori, che considerava le sue guardie bianche: oltre gli autori citati, spiccavano in quegli anni Del Noce, Padre Fabro e Sciacca, o su altri versanti Evola e Scaligero, Cristina Campo ed Elémire Zolla, Quirino Principe e Rosario Assunto, Gianfranco Morra, Mario Marcolla e Giuseppe Sermonti. Sul piano accademico emergeva Giovanni Reale che riportava il pensiero nel grembo della metafisica, di Platone e della tradizione spiritualista. Ma l’ostracismo della grande editoria e della grande stampa, l’ostilità del potere culturale e accademico, l’assenza di sponsor, l’ignoranza, l’indifferenza se non la diffidenza del ceto politico di centro-destra, la morte precoce di alcune giovani promesse, la moria di testate affini o almeno ospitali, l’inattitudine a costituire un intellettuale collettivo, con una strategia e un pensiero comunitari, condannarono all’isolamento e alla disperazione i suoi esponenti. Eppure sarebbe stato assai proficuo vivere i decenni seguenti avendo a disposizione divergenti letture culturali, valori di riferimento alternativi, figure ed esempi di altro stampo e confronti dialettici tra pensieri differenti. Prevalse invece il coro del fanatismo giacobino e del conformismo ideologico-politico; a cui seguì il deserto del cinismo di massa. In quel pendolo dall’Astio all’Oblio, dalla Militanza alla Miscredenza, si persero idee, figure e pensieri non allineati. Gli anni ottanta provvidero a spazzare quasi tutto quel mondo con i suoi autori. Qualcosa affiorò con la Nuova Destra, ma la grande stagione dei non conformisti s’inabissò nel buio dell’omologazione prima ideologica e poi sfociata nella “deculturazione”. Una volta, pensando alla sua testimonianza solitaria, Quadrelli citò Dante: “Facesti come quei che va di notte/e porta il lume dietro e sé non giova, /ma dopo sé fa le persone dotte”. La tragedia fu che quel lume fu inghiottito dal buio e non giovò nemmeno ai posteri. Viviamo nella scia della loro dimenticanza.