La nostra vita quotidiana
È tutta questione di… realismo.
La struttura sociale di ogni cultura affonda le proprie radici nell’attività quotidiana dei suoi membri.
Esistono due concetti chiave per comprendere ciò che lega una persona ad un’altra e i modelli che fanno parte di una struttura sociale, ossia quello di status e quello di ruolo.
Lo status designa una posizione che può essere occupata da una persona all’interno di un sistema sociale. Tutti noi siamo quindi portatori di diversi status, nel senso che possiamo occupare posizioni sociali diversificate. Per esempio, si può essere contemporaneamente studenti, figli o figlie, genitori, atleti e anche musicisti.
Lo status può essere ascritto oppure acquisito.
Gli status ascritti sono quelli che provengono dalla nostra appartenenza ad una struttura familiare, e ci vengono quindi forniti fin dalla nascita, indipendentemente dai nostri desideri oppure dalle nostre capacità. Gli acquisiti/conseguiti sono invece quelli che otteniamo volontariamente, e sono in larga misura l’effetto dei nostri sforzi personali.
Per esempio, lo status di Barone, all’interno di una famiglia aristocratica, è ascritto, mentre diventare Presidente della Repubblica di una determinata nazione è espressione di uno status conseguito.
I ruoli, invece, rappresentano i comportamenti socialmente attesi e associati a determinati status. Per esempio, gli attributi di ruolo fondamentali di coloro che esprimono lo status di studente sono quelli di frequentare i corsi, svolgere le esercitazioni e mostrare una certa dose di rispetto nei confronti dei docenti e dei propri colleghi studenti.
I concetti che abbiamo appena espresso sono utili per comprendere come la struttura sociale incide sul nostro comportamento e sul nostro sentimento di identità personale.
In effetti, ognuno di noi ricopre una serie di ruoli: all’interno della propria famiglia, come fratello o sorella, figlio o figlia, e magari anche come genitore. Con l’espressione dei comportamenti tipici di questi ruoli si stabiliscono una serie di legami concreti, che ci uniscono al resto della società.
Ecco perché i ruoli condizionano la nostra vita: chiariscono le attese che gli altri vantano nei nostri confronti, rispetto ai diversi contesti. Infatti, i membri di un qualsiasi gruppo sociale condividono aspettative analoghe sul ruolo di ciascuno, affinché l’interazione tra i singoli venga rafforzata nei rispettivi ruoli.
Interiorizziamo le componenti dei propri ruoli a diversi livelli e alcuni di questi diventano talmente connaturati che molte volte è difficile comprendere quanto essi veicolino le nostre azioni. In realtà, i ruoli entrano talmente a far parte della nostra identità personale che molto spesso affermiamo di “essere un architetto” mentre dovremmo affermare che “ricopriamo il ruolo di architetto”.
Esistono però alcune occasioni che ci permettono di comprendere quanto i ruoli incidano sui nostri comportamenti. Ad esempio, quando ne adottiamo uno possiamo avere una percezione molto chiara delle pressioni che tale situazione esercita su di noi.
Proviamo a pensare quando iniziamo un nuovo lavoro.
Nei primi giorni, le aspettative associate alla nostra nuova posizione ci appaiono poco chiare, in seguito osservando i comportamenti dei colleghi, impariamo a gestire correttamente i comportamenti tipici del nostro nuovo ruolo.
È proprio il concetto di ruolo che spiega perché il comportamento di un individuo si conforma a un modello generale, ma può, al tempo stesso, essere modificato per effetto di forze sociali. Le aspettative associate a un ruolo non sono infatti rigide e non impongono comportamenti determinati.
Quando violiamo una delle norme fondamentali che disciplinano un qualsiasi ruolo, per esempio non presentandoci in orario nel luogo di lavoro, il nostro tipo di comportamento può privarci temporaneamente o definitivamente dello status di lavoratore. E questo avviene proprio per la violazione delle aspettative che le persone vantano nei nostri confronti.
Infine, come abbiamo accennato, non dobbiamo dimenticare che i ruoli si modificano nel corso del tempo.
Si prenda, ad esempio, il ruolo genitoriale che è andato modificandosi sensibilmente negli ultimi cinquant’anni. Se conosciamo persone di età compresa tra i settanta e gli ottanta anni possiamo renderci conto cosa voleva dire essere genitori negli anni ’60 e ’70, quando molte madri erano solamente casalinghe.
Oggi, molti genitori affidano i propri figli piccoli agli asili, ai parenti oppure alle baby sitter. Nelle famiglie della classe media, il tempo dei bambini viene spesso programmato così intensamente che i genitori devono portarli avanti e indietro per tutta la città, tra un impegno e l’altro. Proprio in seguito a questi mutamenti anche la definizione di “bravo genitore” è sostanzialmente cambiata, così come sono cambiate, nei confronti dei genitori, le aspettative dei figli, dei datori di lavoro e della scuola.
Alessandro Bertirotti si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio Statale di Musica di Pescara e laureato in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Firenze. È docente di Psicologia per il Design all’Università degli Studi di Genova, Scuola Politecnica, Dipartimento di Scienze per l’Architettura ed è attualmente Visiting Professor di Anthropology of Mind presso l’Universidad Externado de Colombia, a Bogotà e presidente dell’International Philomates Association. È membro della Honorable Academia Mundial de Educación di Buenos Aires e membro del Comitato Scientifico di Idea Fondazione (IF) di Torino, che si occupa di Neuroscienze, arte e cognizione per lo sviluppo della persona. Ha fondato l’Antropologia della mente (www.bertirotti.info).