𝐈𝐨 𝐜𝐢 𝐦𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐥𝐚 𝐟𝐚𝐜𝐜𝐢𝐚 𝐦𝐚 𝐯𝐨𝐢 𝐬𝐢𝐚𝐭𝐞 𝐢𝐧𝐜𝐥𝐮𝐬𝐢𝐯𝐢
Ci ho messo la faccia, per una società inclusiva, non lasceremo indietro nessuno… e lei che idea si è fatto? Ma non vi infastidisce il gergo petulante della conformità, con le sue frasi fatte e i suoi pensierini prestampati, che si ripetono in ogni lezioncina, talk show, articolo e intervista?
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Io ci metto la faccia ma voi siate inclusivi
di Marcello Veneziani
08 Ottobre 2023
Ci ho messo la faccia, per una società inclusiva, non lasceremo indietro nessuno… e lei che idea si è fatto? Ma non vi infastidisce il gergo petulante della conformità, con le sue frasi fatte e i suoi pensierini prestampati, che si ripetono in ogni lezioncina, talk show, articolo e intervista?
Un tempo si prendevano in giro le forme ipocrite della vecchia borghesia, il suo linguaggio falso e paludato, i suoi stereotipi, i suoi pregiudizi. E anche per questo nacque il ‘68. Ma col passare del tempo, e col passaggio dalla protesta alla cattedra, dall’opposizione di strada al potere culturale e mediatico, anche il sessantotto inventò un suo rococò del linguaggio. Di cui è figlio legittimo il politically correct, dal catechismo woke alla cancel culture, dal metoo al black lives matter. Con tutto il suo frasario e le sue ipocrisie per non chiamare le cose col loro vero nome e non irritare nessuno.
Ma oltre questo codice neo-bigotto, c’è una zavorra di pigrizie, birignao, formule ripetute a pappagallo, che segue la parabola ossessiva e banale delle mode.
Metterci la faccia, per esempio, è ormai una dichiarazione spavalda di coraggio e sincerità che è stucchevole, tanto è ricorrente. Un tempo si dava la parola d’onore, si metteva in gioco la propria credibilità e affidabilità, si richiamava la propria coscienza, si metteva il cuore o la testa; oggi, nell’epoca dell’apparenza, dei social e dei video, è tutta una questione di faccia. Non di verità, di coscienza e tantomeno di onestà ma solo di immagine, di facciata, di faccina, come gli emoticon: c’è chi dice di metterci la faccia mentre sta cedendo o vendendo altre parti del proprio corpo, come la lingua e il posteriore.
O la parola magica che ormai è infilata in ogni contesto, scolastico, sportivo, sociale, perfino nella pubblicità: inclusivo. Mai vista una società con tante esclusioni ed esclusività come la nostra, che emargina il sentire comune, la vita reale, i gusti ordinari della gente, ma poi si appella all’inclusione, pretende l’inclusività, col sottinteso che è verso gli estranei, gli stranieri, gli ibtrusi o coloro che non meritano. E verso tutti coloro che fanno parte delle minoranze “giuste”, socialmente protette e lodate. Inclusiva dev’essere la società verso i migranti, lo dice pure il Papa. Ma si è mai pensato quanto poco inclusiva sia poi questa società nei confronti di coloro che non migrano ma restano nei loro posti d’origine? E si è mai paragonato i milioni di migranti effettivi o potenziali con i miliardi di stanziali che popolano la terra e che sono dimenticati, esclusi, negati dal cono di luce occidentale? Quanta ipocrisia nel gergo dell’inclusività, quante omissioni.
E la frase “non lasceremo indietro nessuno” che sembra così evangelica se non addirittura da arca di Noè e invece è solo un’enunciazione retorica che finisce col colpire il merito, lo sforzo, le capacità. Leggetevi l’ultimo libro di Luca Ricolfi, La rivoluzione del merito (Rizzoli) per rendervi conto dell’impossibile e dannosa utopia del non lasciare indietro nessuno. E’ una frase che va bene per i soccorsi dei pompieri, per il naufragio di una nave, o altre disgrazie del genere, ma immessa nella realtà sociale è solo uno stupido, sciagurato, demagogico ottimismo che porta anche male (tipo il mantra “andrà tutto bene” ripetuto agli inizi del covid…).
O la conclusione di ogni predicozzo sulle donne, sui generi, sui giovani, sui deodoranti sempre uguale: “l’importante è come ti senti tu, l’importante è stare bene con se stessi”; ma non vi viene in dubbio che si debba stare bene con gli altri, a partire da chi ti è più vicino; col mondo, con la propria coscienza, e non sempre e solo pensare a se stessi al centro dell’universo? L’importante è come ti senti tu, e non conta l’età ma quella che ti senti veramente… E invece no, ragazzi, conta l’età effettiva, conta la realtà, contano le condizioni vere della tua vita, i rapporti che hai con gli altri, come consideri gli altri e come sei considerato dagli altri. Non basta fare il giro intorno al proprio ombelico, guardarsi allo specchio, magari deformato, e concludere che stai bene con te stesso. Dai su, torna alla realtà.
Non c’è poi intervista in cui non vi sia la domanda prestampata: lei che idea si è fatto? Ma basta, cambiate formula. Non fate come i poco creativi della pubblicità che in un messaggio di trenta secondi oltre a infarcirlo dei nuovi luoghi comuni ecologici, transessuali, gay, multietnici con l’obbligo del nero in ogni spot (facoltativo l’asiatico), usano poi le stesse parole per vendere, col verbo chiave Scopri, che si ripete in uno spot su due. Sulle campagne pubblicitarie ruffiane e sulla nuova filosofia aziendale fintoprogressista si veda il libro di Carl Rhodes, Capitalismo Woke, edito da Fazi.
Il linguaggio della politica, perduti i riferimenti ideologici e ideali, naviga tra altri stereotipi ormai insopportabili, con formule prefabbricate per rimarcare l’altrui fallimento e il proprio radioso successo nel nome della verità. Ma sono ancora più insopportabili le premesse morali, del tipo: per me la politica è servizio, mettere al centro i cittadini… Ma dai, raccontalo a tua nonna, fai politica per ambizione, per fame di potere, di visibilità, di privilegi, di affari… Su dillo, confessalo, non sei mica un missionario, non ti sacrifichi per gli altri, non metti al centro gli altri, non rendi un servizio disinteressato… Su, siate realisti, un po’ più sinceri e credibili, metteteci più impegno e meno faccia…
(Panorama, n.42)