L’Occidente e la Rivoluzione culturale cinese

L’Occidente sta importando la Rivoluzione culturale cinese

di J.B. Shurk  24 settembre 2023

Pezzo in lingua originale inglese: The West Is Importing China’s Cultural Revolution
Traduzioni di Angelita La Spada
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La “rivoluzione culturale” cinese ha già distrutto una grande civiltà, forse l’Occidente dovrebbe rifiutarsi di importare una propria rivoluzione culturale prima che sia troppo tardi. Nella foto: un gruppo di bambini che leggono il “libretto rosso” del presidente Mao Tse-tung, riuniti davanti a un ritratto di Mao durante la Rivoluzione culturale cinese, intorno al 1968. (Foto di Hulton Archive/Getty Images)

La millenaria cultura tradizionale cinese è permeata da bellissime teorie confuciane, dai legami di parentela, dal simbolismo artistico, dalla mitologia e da una costante devozione agli antenati di famiglia. Ma ad osservare queste antiche usanze è Taiwan, e non la Cina, dove un visitatore dovrebbe recarsi. Quando i comunisti della Cina continentale distrussero il ricco patrimonio cinese e quando la “Rivoluzione culturale” di Mao Tse-tung spazzò via i “Quattro Vecchiumi”, ossia le vecchie idee, i vecchi costumi, le vecchie abitudini e la vecchia cultura della società cinese, Taiwan divenne de facto l’estremo rifugio per una delle grandi civiltà più antiche al mondo.

Lo stile di vita tradizionale della Cina era sopravvissuto a migliaia di anni di guerra civile intermittente, ad aggressioni straniere, a periodi di carestie e al sabotaggio occidentale. Ma quando il virus del comunismo si radicò nelle sue terre, la vivace storia della Cina venne spazzata via nel giro di una generazione. Due decenni e mezzo fa, alcuni accademici compirono uno sforzo encomiabile nel calcolare i costi del comunismo nel XX secolo, ne Il libro nero del comunismo: crimini, terrore, repressione. Se quest’opera enumera come i governi comunisti hanno sistematicamente ucciso cento milioni di cittadini e torturato molti altri, descrive, però, vagamente l’immensa forza distruttiva che il comunismo ha avuto sul popolo cinese.

Se la civiltà occidentale avesse subito una simile “rivoluzione culturale”, sarebbe stato come se tutte le grandi idee della democrazia greca, del repubblicanesimo romano, della teologia giudaico-cristiana, della ragione illuministica, della rivoluzione scientifica e della preservazione della libertà individuale fossero scomparse dall’oggi al domani. Immaginate di cancellare dalla storia Aristotele, Cicerone, Agostino, Tommaso d’Aquino, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Shakespeare, Locke, Jefferson e ogni altro pensatore, scrittore, artista, inventore e statista. È questa la portata del genocidio culturale che il comunismo ha perpetrato contro il popolo cinese oltre alle decine di milioni di vittime massacrate e cancellate dalla memoria collettiva.

È strano, quindi, vedere così tante istituzioni internazionali guardare oggi alla Cina per una guida globale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ampiamente imitato le drastiche misure del lockdown anti-Covid adottate in Cina quando ha posto in essere procedure di contenimento che hanno riguardato ogni aspetto della vita occidentale. Il fondatore del World Economic Forum (WEF), Klaus Schwab elogia costantemente lo Stato di sorveglianza della Cina per la sua capacità di “spingere” i cittadini verso la conformità. Mentre gli apologeti della Cina chiudono un occhio sui continui genocidi dello Stato comunista monopartitico contro cristiani, tibetani e uiguri, i praticanti del Falun Gong e altre minoranze difendono la macchina del totalitarismo tecnocratico come modello per il resto del mondo. È profondamente inquietante vedere un distruttore di civiltà presentato come il futuro della civiltà globale.

Ma questo è esattamente ciò che ha in mente il “Great Reset” – il “Grande Reset” del WEF. Nonostante tutta la sua enfasi sulla scienza e la tecnologia, e nonostante le sue abbaglianti visioni del futuro, il “Great Reset” segue le orme della desolazione culturale della Cina. L’influente organizzazione di Schwab cerca di ricreare un sistema cinese in cui un piccolo gruppo di élite impartisce ordini e i comuni cittadini obbediscono diligentemente. Rincorre un’esistenza desolante in cui il libero pensiero è visto come “pericoloso” e il dogma di Stato è abbracciato per fede. Vuole costruire una civiltà priva di una cultura vivace, dove forme di intelligenza artificiale edificano il mondo e l’innovazione umana si disperde. Il “Great Reset” è una “rivoluzione culturale” del XXI secolo intesa a ripulire l’Occidente dalle sue “vecchie tradizioni”.

Se il WEF fosse davvero interessato a proiettare gli ideali dell’Illuminismo, il liberalismo occidentale e le norme democratiche in tutto il mondo, quel corpo di aristocratici non eletti farebbe tutto ciò che è in suo potere per convincere i leader cinesi dell’importanza fondamentale della libertà di parola, della libertà di religione, della proprietà privata, dello Stato di diritto e del rispetto della privacy. Il fatto che non faccia nulla del genere indica che esso è più incline verso i mandarini del Partito Comunista Cinese (PCC) di quanto i seguaci ideologici di Schwab siano disposti a propagandare.

“Il regime tecno-totalitario che il PCC sta perfezionando in Cina non rimarrà lì”, ha avvertito il deputato statunitense Michael Gallagher, presidente del Comitato ristretto della Camera sul Partito Comunista Cinese. “È un modello che vogliono sempre più esportare in tutto il mondo”. Considerato quanto continuano ad essere sincronizzati il PCC e il World Economic Forun, sembra che Schwab sia più che disposto ad aiutare la Cina ad esportare il suo stato di polizia totalitario in ogni parte del globo.

C’è una malsana ironia in questa serie di eventi. Più o meno nel periodo in cui Il libro nero del comunismo metteva a nudo il puro orrore dei crimini compiuti dalla Cina contro l’umanità, i politici americani stavano spianando un percorso dorato allo stato di polizia monopartitico affinché entrasse a far parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e diventasse una potenza manifatturiera. Una delle principali giustificazioni per aver trascurato la lunga lista di violazioni dei diritti umani da parte della Cina quando, nel 2000, l’allora presidente Bill Clinton e un Congresso bipartisan concessero alla nazione comunista il cosiddetto status di normali relazioni commerciali permanenti è stata la dubbia affermazione che così facendo la Cina sarebbe diventata più simile all’America. “Gli americani appoggiano quest’accordo”, affermò all’epoca il deputato statunitense Bill Archer, “perché sanno che è positivo per l’occupazione in America e per i diritti umani e per lo sviluppo della democrazia in Cina”. Due decenni e mezzo di perdita di posti di lavoro negli Stati Uniti, la continua persecuzione cinese delle minoranze etniche e il crescente potere globale del Partito Comunista Cinese hanno reso quest’affermazione incredibilmente ingenua.

Scusare il totalitarismo cinese e consegnare alla nazione comunista le chiavi per arricchirsi grazie ai lucrosi mercati globali potrebbe rivelarsi l’errore di politica estera più significativo degli ultimi secoli. Invece di portare maggiore prosperità agli americani, come avevano promesso all’epoca il presidente Clinton e il segretario di Stato Madeleine Albright, la normalizzazione delle relazioni commerciali con la Cina ha devastato la solida autosufficienza industriale e manifatturiera degli Stati Uniti, impoverendo le tute blu, ossia la classe operaia di tutto il Paese, e ha lasciato che l’americano medio dipendesse da un nemico geopolitico spesso ostile alle materie prime essenziali e ai prodotti finiti.

Mentre i posti di lavoro americani vengono costantemente delocalizzati dall’altra parte del mondo e gli stipendi americani vengono spesi per le importazioni cinesi, la ricchezza viene prosciugata dagli Stati Uniti e depositata come capitale sotto il controllo del Partito Comunista Cinese e dei suoi prosperi militari. La Cina continua a eludere qualsiasi regola o norma internazionale che possa ostacolare il suo potere in espansione o i profitti economici. Ha anche utilizzato le sue rotte commerciali per contrabbandare negli Stati Uniti il fentanyl e altri narcotici letali. È altrettanto allarmante il fatto che il PCC abbia anche introdotto negli USA “un numero senza precedenti” di gruppi di uomini idonei alle armi allo scopo di sabotare le infrastrutture americane se gli Stati Uniti tentassero di impedire alla Cina di impadronirsi di Taiwan. Un significativo aumento di immigrati illegali aventi legami confermati con l’Esercito Popolare di Liberazione ha indotto il deputato americano Mark Green ad affermare: “Questo è uno sforzo concertato da parte dei cinesi per destabilizzare gli Stati Uniti, per danneggiare la nostra società e per facilitare l’esecuzione di base della loro versione dell’ordine mondiale globale”.

Nonostante il comportamento ben documentato della Cina come Paese manipolatore di valuta e come ladro di proprietà intellettuale, il Fondo Monetario Internazionale ha pressoché confermato che presto accetterà lo yuan cinese per il rimborso del debito. Anziché fornire un meccanismo per “democratizzare” uno Stato comunista chiuso, portare l’economia mondiale alle porte della Cina non ha fatto altro che rafforzare il suo autoritarismo dalla morsa di acciaio, incoraggiare la sua prova di forza regionale, ampliare la sua capacità di causare danni agli americani comuni e cementare il suo peso geopolitico. Gli Stati Uniti stanno sostanzialmente sottoscrivendo le barbarie del Partito Comunista Cinese, afferma Tony Perkins, ex presidente della Commissione bipartisan degli Stati Uniti sulla Libertà religiosa internazionale: “La Cina è in realtà più repressiva oggi di quanto lo fosse due decenni fa, e la ragione sta nel fatto che può permettersi di esserlo dal momento che i consumatori americani finanziano la sua repressione”.

I politici e i rappresentanti commerciali di Washington, D.C., pensavano di poter catturare il drago cinese per la coda, ma non vi è alcun dubbio che un quarto di secolo dopo la bestia sputafuoco sia diventata ancor più pericolosa. La senatrice Marsha Blackburn definisce senza mezzi termini la tendenza dell’amministrazione Biden a ignorare il cattivo comportamento della Cina come uno sforzo delirante “per placare una dittatura che commette dilaganti violazioni dei diritti umani e opprime la propria popolazione”. Sono passati più di ottant’anni dalla morte del primo ministro britannico Neville Chamberlain, e ancora una volta l’appeasement dei brutali regimi totalitari è di nuovo in gioco, e fa tutto parte di quella spesso vaga promessa di pace globale.

Oltre ai distruttori della loro antica civiltà, che tipo di persone guidano oggi la Cina comunista? Ebbene, sono esattamente quel genere di autoritari che paradossalmente l’élite di Davos denigra quando esalta le virtù della “democrazia”. La Cina invia le sue spie in tutto il mondo per vessare e intimidire i dissidenti che parlano e scrivono contro il regime comunista. Ha posto delle taglie da un milione di dollari sulle teste di coloro che hanno manifestato la propria opposizione all’acquisizione di Hong Kong da parte di Pechino. Se “rappresenti in qualsiasi modo una minaccia per il Partito Comunista Cinese”, ha ammonito il deputato statunitense Carlos Gimenez, “sarai perseguitato, finirai in prigione e, talvolta, potresti anche perdere la vita”.

Molti sostenitori della normalizzazione delle relazioni commerciali con la Cina ipotizzavano soltanto i migliori risultati e ignoravano la possibilità di rafforzare ulteriormente un attore inaffidabile. Un anno dopo che Clinton aveva contribuito a portare la Cina nel club del “libero scambio”, anche l’allora presidente George W. Bush sosteneva che “il libero mercato è uno strumento di libertà in Cina, di stabilità in Asia e di prosperità negli Stati Uniti”. Ignorando le ripercussioni del nutrire una bestia pericolosa, ha proseguito Bush, “quando apriamo il commercio, apriamo le menti. Commerciamo con la Cina perché il commercio è una buona politica per la nostra economia, perché il commercio è un’adeguata politica per la democrazia e perché il commercio è una politica valida per la nostra sicurezza nazionale”.

Erano tutti obiettivi encomiabili, ma le buone intenzioni spesso portano a risultati disastrosi. Se Bush avesse saputo nel 2001 che oggi negli Stati Uniti la classe operaia sarebbe languita, che la Cina avrebbe ucciso decine di migliaia di americani ogni anno con il fentanyl, carpendo la tecnologia brevettata delle aziende statunitensi e che le istituzioni mondiali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità e il World Economic Forum avrebbero promosso attivamente lo Stato di sorveglianza tecnocratico del Partito Comunista Cinese, forse non sarebbe stato così impaziente di dare potere alla Cina attraverso il commercio senza barriere. Forse sarebbe stato maggiormente incline a chiedersi se la democrazia, la stabilità, la prosperità e la sicurezza nazionale avrebbero potuto alla fine degradarsi. Forse avrebbe riconosciuto che la Cina sarebbe riuscita ad esportare la sua filosofia autoritaria in tutto il mondo con maggiore efficienza rispetto a come gli Stati Uniti esportano la libertà.

Come hanno attestato molti studiosi di movimenti radicali, “gran parte dell’attivismo che sta attualmente facendo a pezzi la civiltà occidentale si basa su idee che possono essere ricondotte al maoismo”. La “Rivoluzione culturale” cinese ha già distrutto una grande civiltà, forse l’Occidente dovrebbe rifiutarsi di importare una propria rivoluzione culturale prima che sia troppo tardi.

 

J.B. Shurk scrive di politica e società ed è Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute.