𝐍𝐨𝐧 𝐬𝐩𝐚𝐫𝐚𝐭𝐞 𝐬𝐮𝐥𝐥’𝐈𝐧𝐧𝐨 𝐚 𝐑𝐨𝐦𝐚
Sole che sorgi libero e giocondo…Com’era bello l’Inno a Roma di Giacomo Puccini e come è bello ancora, a risentirlo adesso.
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Non sparate sull’Inno a Roma
di Marcello Veneziani
17 Luglio 2023
Sole che sorgi libero e giocondo…Com’era bello l’Inno a Roma di Giacomo Puccini e come è bello ancora, a risentirlo adesso. L’altro giorno, dopo l’ennesimo linciaggio subito da Beatrice Venezi per aver osato suonare con l’orchestra nella sua Lucca, all’apertura del festival pucciniano, l’Inno a Roma, una giovane amica è rimasta incuriosita e non conoscendo l’inno, ha voluto sentirlo col suo smartphone. Riascoltandolo con lei, sono tornato a più di cinquant’anni fa, e mi è parso di tornare ragazzo con le ali sotto i piedi. Ho ritrovato le parole, che ricordavo tutte, e anche l’aura di quel canto e di quel tempo e quelli che come me lo cantavano e nasceva tra noi un’intesa più forte del fuoco.
L’Inno a Roma è del 1918, quando il fascismo ancora non era nato, nessuna frase dell’Inno evoca il fascismo, anche se le sue parole, nella loro semplicità compongono una coerente visione della vita e di una civiltà. E’ una composizione tarda e maestosa di Puccini, che pochi anni dopo morirà; risente del fervore patriottico della prima guerra mondiale, ma venata di tenerezza. Fu suonato ai tempi del fascismo, anche se altri canti prettamente fascisti caratterizzarono il repertorio musicale del regime: da Faccetta nera a Giovinezza, che era un canto prefascista e goliardico, adattato poi nelle parole al fascismo. Ma l’Inno a Roma diventò il blasone, la bandiera, la colonna sonora, il richiamo magico dei comizi del Movimento Sociale Italiano; in particolare di quelli di Giorgio Almirante che erano spettacoli oratori di teatro politico e passione ideale. Ne eravamo ammaliati, anzi infiammati. E quell’Inno ne era il mito, il rito, la liturgia.
L’Inno a Roma a volte fungeva da richiamo per trovare la piazza tricolore dove ci sarebbe stato il comizio della fiamma; noi ragazzi, nei nostri pellegrinaggi militanti, quando sbarcavamo in città non conosciute, seguivamo questo navigatore musicale, andavamo a orecchio, come i topi del pifferaio di Hamelin. Una volta l’udito c’ingannò, o forse il vento ne deviò il percorso; e a Matera, o forse a Brindisi, finimmo con le nostre bandiere tricolori nella piazza antagonista dove puntualmente c’era la contro-manifestazione antifascista. Ma il fattore sorpresa fu tale che passammo tra due ali di folla incredula, tra pugni chiusi e bandiere rosse, si aprì un varco per farci passare, noi del reggimento nemico bardati a tricolore. Passammo indenni mentre si apriva davanti a noi come per miracolo il Mar Rosso… Ma al sud c’erano talvolta queste indulgenze.
Nell’Inno a Roma voi ci vedete il fascismo, la dittatura, la guerra, e magari pure i campi di sterminio; noi ci vedevamo la nostra giovinezza, la nostra comunità, il canto di libertà, a viso aperto, in faccia al mondo; l’ebbrezza di dirsi italiani, romani, latini, la gioia di una festa politica e il sogno di appartenere a una storia antica da rinnovare, “il sol che nasce sulla nuova storia” e che ricorda il socialista Sol dell’Avvenire. L’Inno pucciniano era il canto di una civiltà e di una società armoniosa, in cui “il tricolore canta sul cantiere e sull’officina”, sui campi di grano e sulle greggi, sui reggimenti e sulle “pensose scuole”. Era bello quell’universo corale, in cui operai e contadini, soldati e studenti, si sentivano parte organica di un tutto, nel solco di una civiltà e di una storia. “Per tutto il cielo è un volo di bandiere” e noi le vedevamo in quella piazza, le bandiere inneggiate, sventolare per la nostra festa politica.
Voi ci vedete l’odio, in quella piazza e in quell’Inno; noi ci vedevamo amore, amor patrio, amor di civiltà, amore di comunità e di politica; sì, all’epoca ci si poteva pure innamorare di politica, e si dava tutto senza aspettarsi nulla in cambio sul piano personale, perché come ripeteva Almirante, citando Gabriele d’Annunzio: “Io ho quel che ho donato”; anzi andava oltre il Poeta e diceva: “Io ho quel che mi avete donato”, e il popolo tricolore si commuoveva. Voi ci vedete il nero e l’orbace, noi ci vedevamo il sole e la luce, la gioia sorgiva, che s’irraggia libera e gioconda; il magnifico sole di Roma, nell’azzurro italiano, latino e mediterraneo. Dal Campidoglio “tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma” (la Roma di Puccini non è quella di Gualtieri).
Ecco, dovessi confessare la mia indole nostalgica, direi che ho nostalgia di quella Roma pucciniana, di quell’Italia pucciniana, in equilibrio tra giustizia sociale e amor patrio, natura lussureggiante e civiltà gloriosa. Ma ho nostalgia soprattutto dei nostri occhi di ragazzi, che “vedevano” in quel canto, in quelle parole, un’alba di vita, un risorgimento di passione, un popolo che si raccoglieva intorno a un mito antico.
Poi, certo, sono bastati i cinquant’anni seguenti per disincantarci, la nostra età avanzata per capire che erano sogni di un’età appena svegliata che aveva ancora in testa il sogno della notte. Venne l’età degli incubi, poi delle insonnie, quindi della melatonina per dormire, tra risvegli angosciosi e visioni del vuoto davanti a noi. Solitudini e deserti.
Ma furono veri quei sogni, e veraci quelle passioni ideali; furono condivisi, quei sogni, non erano fantasie oniriche di solitari. Fu bello avere sedici anni in quel tempo. Ed è bello ricordarlo nel nostro. E quelli che vissero con noi, come noi, io li sento ancora fratelli, non mi vergogno di averli considerati camerati e non mi indignerebbe affatto chiamarli compagni, perché l’espressione – almeno – è bella, vuol dire che dividi con loro il pane della vita (cum-panis). Sono convinto che quelle passioni univano negli intenti anche i fronti più divisi; certo, noi eravamo più inclini ai “valori dello spirito”, o se preferite, alla retorica. Ma non c’è da vergognarsi di quelle passioni e delle sue “belle bandiere”. Beatrice Venezi con l’Inno a Roma ha reso onore a Puccini; altri invece lo hanno stuprato, portando in scena una Bohème comunistoide e sessantottarda.
Quella dell’Inno a Roma era un’Italia migliore.
La Verità – 16 luglio 2023