Elogio del gabbiano solitario e antico

𝐄𝐥𝐨𝐠𝐢𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐠𝐚𝐛𝐛𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐬𝐨𝐥𝐢𝐭𝐚𝐫𝐢𝐨 𝐞 𝐛𝐢𝐚𝐧𝐜𝐨
L’altro giorno ero sulla riva del Tevere, ai bordi dell’isola tiberina, in quel punto in cui c’è un dislivello del fiume e si crea una cascata che trasmette energia impetuosa di vita.

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Elogio del gabbiano solitario e antico
di Marcello Veneziani
Pubblicato il 07 Maggio 2023

L’altro giorno ero sulla riva del Tevere, ai bordi dell’isola tiberina, in quel punto in cui c’è un dislivello del fiume e si crea una cascata che trasmette energia impetuosa di vita. C’era vicino a me un gabbiano candido e snello, non come quei bestioni volanti e urlanti che vivono in città e s’ingrassano nutrendosi d’immondizia e di sontuosi rifiuti alimentari. Era sul bordo del fiume e ogni tanto pescava col suo agile becco pesci e larve che gli capitavano a tiro. Non strillava, come i suoi isterici congiunti, non faceva lo “sborone” come i tanti sguaiati e obesi colleghi coi loro gridi e sbattimenti d’ali minacciosi e spavaldi. Beccava con sobrietà e poi trangugiava allungando il collo e il becco. E dopo un breve volo digestivo tornava al punto di prima, contemplava in silenzio il fiume e ho immaginato che coltivasse una silenziosa nostalgia del mare, il suo habitat naturale, prima che lo stormo di famiglia traslocasse nella capitale.

Ho fantasticato che quel gabbiano in disparte fosse un cuore solitario e un’anima sensibile, legata al bel tempo andato, quando i gabbiani volavano sui mari, con giocosa innocenza, lontani dallo stress urbano, dal traffico e dalla presenza minacciosa, soprattutto di sera, di umani, automobili, cinghiali e topi, che si contendono il bendidio dei cassonetti e soprattutto di quegli infelici buste di plastica coi rifiuti che ondeggiano al vento e sono facile preda della loro fame rapace. Dovete sapere che dopo Virginia Raggi, regina dello zoo romano, gli animali non hanno lasciato la città col nuovo sindaco piddino; ma l’abitano come prima più di prima, anche perché la lordura della città non è affatto cessata col cambio al Campidoglio e i rifiuti ammiccano a ogni angolo di strada invitandoli a uno street food sontuoso e permanente. Si temono i lupi nelle periferie romane e si aspetta solo l’invasione degli orsi a Roma, come nella fiaba di Dino Buzzati, e poi il bestiario è completo. Anzi sarebbe da programmare un loro trasferimento nella Capitale, soprattutto nelle ore notturne, per ristabilire la catena alimentale e per spaventare i molesti nottambuli della movida; dico gli umani che tra le bestie sanno essere i peggiori, a notte inoltrata.

A Roma, un clan di gabbiani rumorosi abita sul tetto di casa mia. E’ un continuo gridare e calpestare le tegole con zampe che sembrano scarponi anfibi. E uno sbattere continuo di prede carpite quando scendono a mensa per strada. Sono intrattabili, strillano in continuazione, si beccano, si fanno scenate. Soprattutto il pischello è venuto su nevrastenico. Vivere in città li ha stressati. I gabbiani che vivono sul mare sono sereni e leggiadri, si godono la vita, a sud si fanno pure la controra dopo pranzo. Roma corrompe anche loro. Erano il simbolo della libertà, invece stanno sempre qui, ai domiciliari, a litigare. In città sono contronatura. Sarebbe giusto sfrattarli, ma se lo dici ti accusano di essere zoofobo, di volere la sostituzione etnica con i più innocui piccioni. Gli animalisti vorrebbero riconoscere loro, lo ius soli, o ius tetti.

Ma io preferisco quel gabbiano magro, composto, che mangia secondo natura e non si è fatto corrompere dal consumismo e dai cibi sofisticati in buste di plastica; quel gabbiano contemplativo e poetico, che ha nostalgia del mare, ti riconcilia con l’animale che amavi. Simbolo di libertà e di candore, di cieli limpidi e soleggiati, di voli felici e lontani, che poi la sera si perdevano in un misterioso altrove, per ritornare al mattino sui mari o inseguendo i pescherecci.

Rivedi in lui il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach, che incoraggia a spiccare il volo e a librarsi nel cielo, verso nuovi orizzonti. O la gabbianella di Luis Sepulveda a cui un gatto le insegnò a volare. Ripensi agli anni sessanta dove c’erano gruppi musicali a loro dedicati, come Nico e i Gabbiani. Ripensi perfino a quei giovani di destra della sezione di Colle Oppio che si facevano chiamare gabbiani, e in quello stormo guidato da Fabio Rampelli cominciò a volare pure Giorgia Meloni. Anch’io alla fine degli anni ottanta, dirigendo una rivista che si chiamava Pagine Libere, lanciai una campagna promozionale della rivista figurando quelle pagine libere come gabbiani dispiegati nel cielo, in segno di libertà, non conformismo, agilità e amore della luce e del mare. I gabbiani ricordano il mare dell’infanzia e della giovinezza, le traversate, i primi giri in barca con gli amici, in loro festosa compagnia.

Ora che vedevo a due passi da me quel gabbiano antico e solitario, che ama la vita di un tempo, mi sentivo come lui, antico e solitario, nostalgico fratello di quel tempo, di quelle acque, di quel mare vissuto in libertà, meglio se fuori stagione. Mi identificavo nel suo disagio rispetto al “branco” dei gabbiani inurbati e imborghesiti, ingrassati dal consumismo e avidi di porcherie in plastica. Un po’ come gli umani. E immedesimandomi in lui, nella sua solitudine e nel suo distacco dal rumore del mondo, mi pareva di vivere una versione meno tragica del passero solitario in cui si identificava Giacomo Leopardi. Come lui avvertivo “Primavera d’intorno brilla nell’aria”, “sí ch’a mirarla intenerisce il core”. E poi Leopardi proseguiva e mi pare di vedere il gabbiano: “tu pensoso in disparte il tutto miri; non compagni, non voli, non ti cal d’allegria, schivi gli spassi”. E poi il paragone: “Oimè, quanto somiglia al tuo costume il mio! german di giovinezza”. Viva gli uomini e i gabbiani fuori dal coro.

(Panorama n.19)