Il “Crinale” della storia americana

Il “Crinale” della storia americana: il racconto sepolto della Frontiera

17 Aprile 2023
Michael Punke nel nuovo romanzo Il Crinale racconta di un’epoca poco nota della storia americana, quella delle guerre indiane. Un racconto di una giovane nazione in cerca del suo destino e di un mondo ancestrale che non vuole rinunciare all’estinzione

Matteo Muzio

La storia americana spesso viene letta a compartimenti stagni e non si capisce come si passi da un conflitto modernissimo come la guerra civile, combattuta tra il 1861 e il 1865 anche grazie all’ausilio delle ferrovie, delle prime corazzate a vapore e grazie all’uso sul campo del telegrafo, a guerre più “antiche” come le tante guerre indiane. Una di queste era la cosiddetta guerra di Nuvola Rossa, combattuta dal 1866 al 1868.

Il clima era di un Paese da ricostruire, proprio a partire da quegli eserciti che si erano scontrati tra Nord e Sud. Appena un anno dopo la fine della guerra di secessione, l’esercito statunitense stava adottando una riduzione di organico, smobilitando l’immenso numero di soldati arruolato negli anni precedenti. Un’operazione complessa che prevedeva anche di assorbire gli ufficiali provenienti dal Sud dopo un anno di giuramento sulla Costituzione. Un intervento che seguiva il piano rapido di Ricostruzione instaurato dal presidente Andrew Johnson, un democratico unionista del Tennessee scelto da Abraham Lincoln come suo vice e diventato presidente dopo la morte di Lincoln nell’aprile del 1865.

Tutto questo, nell’area di ambientazione del romanzo Il Crinale, scritto da Michael Punke (edito in Italia da Einaudi) si sente da lontano. Siamo in quella che allora veniva definita Frontiera, quel limite impalpabile tra l’America bianca e governata secondo i dettami della sua Costituzione e quella invece sottoposta al governo delle tribù di Nativi, con i quali il governo federale spesso stipulava trattati. In questo caso, la rottura che dà inizio alla guerra descritta nel romanzo, è quella che causerà il cosiddetto “massacro di Fetterman”, dal nome di William Fetterman, colonnello dell’esercito che vede i suoi uomini uccisi in un agguato da parte di un’alleanza di Lakota Sioux e di Cheyenne, comandati da Cavallo Pazzo.

Punke, già autore di The Revenant, romanzo poi trasposto cinematograficamente nel 2015 da Alejandro Gonzalez Iňarritur, descrive molto bene l’ambiente naturale delle Grandi Pianure dove si svolge la vicenda. Mentre nel precedente romanzo il protagonista era uno solo, il capitano Hugh Glass e la sua incredibile storia di sopravvivenza nel Missouri del 1823, ancora totalmente selvaggio, qui il romanzo analizza tutti i punti di vista, di Fetterman, dei suoi uomini, delle loro mogli che mandano lettere, ma anche dei Nativi.

In special modo emerge proprio la figura di Cavallo Pazzo che qui acquisisce uno spessore diverso rispetto ad altri nativi della letteratura, come nel caso del protagonista del libro-intervista di John Neihardt Alce Nero Parla, dove Alce Nero è ritratto come una figura mitica e misticheggiante. Qui invece Cavallo Pazzo è reso appieno nel suo essere una figura storica a tutto tondo, un leader politico e uno stratega militare che pensa alle conseguenze della scoperta dell’oro nel Montana che rende il suo territorio una landa di conquista per una vasta umanità che corre verso i giacimenti saccheggiando il territorio su cui la sua tribù di Lakota Sioux conta per sopravvivere.

Cavallo Pazzo vuole organizzare la trappola per Fetterman non per una punizione fine a sé stessa, ma per indurre il governo americano a sedersi nuovamente a un tavolo di trattative e stipulare un nuovo trattato più vantaggioso. Paradossalmente fu una strategia che, qualche anno prima, adottò il governo confederato nei confronti del Territorio Indiano, il futuro Oklahoma. Lì il delegato del governo di Richmond stipulò dieci trattati con altrettanti gruppi tribali, per una ragione molto semplice: in primis, guadagnavano la tranquillità al confine nord-occidentale. Inoltre, guadagnavano nuove truppe da arruolare nel teatro di guerra del Trans-Mississippi, difficile da raggiungere.

Un altro aspetto fu che l’amministrazione sudista era disinteressata all’espansionismo a Ovest, preferendo, in futuro, ampliare i propri territori verso l’area caraibica, più favorevole allo sviluppo di un’economia schiavista di piantagione. Le cosiddette tribù civilizzate arrivarono addirittura a ottenere dei delegati non votanti nel Congresso Confederato. Nel 1866 del romanzo, questa è una prospettiva completamente scomparsa.

I Lakota sono da soli e possono contare soltanto sull’alleanza con altri gruppi. Davanti a loro c’è una forza difficilmente conoscibile come quella del governo unionista fresco di una grande vittoria, contro la crisi più dura della sua giovane storia. Cavallo Pazzo rappresenta uno dei maggiori esponenti di una cultura, quella delle Grandi Pianure, relativamente giovane e sviluppata solo da pochi anni, dove la religione ha dei tratti apocalittici e millenaristici simili a quelli dei predicatori evangelici. Eppure ai suoi occhi la trappola per i soldati americani è un modo di fermare una tendenza all’inculturazione che pone come unica alternativa l’estinzione, come affermato esplicitamente da molti esponenti politici in quegli anni.

Quest’attitudine però fornisce ai Lakota la necessaria volontà di resistere anche se il loro leader ha ben presente le possibili conseguenze dei suoi atti. Il capo indiano, però, vuole ugualmente tentare di dare un sussulto di dignità e guadagnare il rispetto degli Yankee. Impresa quasi impossibile, ma che ci restituisce appieno la tensione di quell’epoca di scontro di civiltà propriamente detto. Dove però la parte soccombente dei nativi è tutt’altro che supina al proprio fato ineluttabile.

 

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