La tradizione non è una patata bollita

𝐋𝐚 𝐭𝐫𝐚𝐝𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐞̀ 𝐮𝐧𝐚 𝐩𝐚𝐭𝐚𝐭𝐚 𝐛𝐨𝐥𝐥𝐢𝐭𝐚
Ma che vuol dire difendere la tradizione nostrana in cucina dall’assalto globale e dal cibo sintetico e ogm?

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La tradizione non è una patata bollita
di Marcello Veneziani
Pubblicato il 14 Aprile 2023

Ma che vuol dire difendere la tradizione nostrana in cucina dall’assalto globale e dal cibo sintetico e ogm? La polemica cuoce da giorni a fuoco lento, sono in tanti a intervenire, quasi tutti per ridicolizzare la pretesa del governo Meloni di difendere l’identità italiana nel cibo e il made in Italy alimentare. Lasciamo cadere gli assalti più cretini e più faziosi, anche se si danno le arie di spiegare con acume ai cretini e ai faziosi come stanno veramente le cose. Prendiamo le osservazioni più intelligenti. Michele Serra, ad esempio, ha imbastito un pezzo sapido sulla patata, per rivendicare l’origine forestiera e dunque lo statuto di tubero migrante. La patata, lui dice, è italianissima, eppure viene da lontano, perché tutto nasce da contaminazione e cambiamento.

Per dargli manforte, almeno in partenza, dico che pure due italianissimi marchi identitari, a’pummarola e o’café, vengono da molto lontano, importati dalle Americhe, anche se passano per italo-napoletane.

Il problema, caro Michele, non è stabilire la purezza etnica della patata, del caffè e del pomodoro; ma vedere cosa sono diventate da noi, e solo da noi, nel corso dei secoli, grazie alla nostra capacità inventiva, entrando nella nostra tradizione culinaria, con i nostri ingredienti e prodotti coltivati sotto il nostro sole. Sappiamo, per esempio, che di patate si è cibato per secoli il popolo tedesco, anzi senza kartoffeln probabilmente non sarebbero sopravvissuti. Ma la tradizione non è sbucciare le patate, bollirle e mangiarsele lesse. E’ la manifattura. Per esempio, riso,patate e cozze che si fa da noi in Puglia. Questa è la tradizione. E poco importa che quell’invenzione sia parente della paella spagnola. O che a Napoli il gateau di patate denunci sin dal nome le sue parentele forestiere. E’ un piatto nostrano. Passa dalle mani, gli occhi, la testa, la pancia di persone e di luoghi che insieme costituiscono – senza pretese millenarie o trascendentali, senza purezze ontologiche – l’essenza della tradizione.

E il caffè, perfino il ristretto, banalissimo caffè, diventa da noi non solo l’espresso bollente che conosciamo, ma un rito, una cultura, una pausa identitaria nella nostra vita quotidiana. Esiste anche quello americano, turco, è tostato alla brasiliana. Bene, cosa toglie, cosa aggiunge a una piccola ma sentita tradizione nostrana? Perché dovremo sempre dire che tutto ciò che è nostro è in realtà globale, viene da lontano, oppure limitarsi a denunciare lo sfruttamento, nelle piantagioni di caffè o nella raccolta dei pomodori? Quello è un problema e va denunciato, e realisticamente affrontato. Ma non toglie nulla al rito, alla tradizione, al gusto del caffè.

Le tradizioni, certo, non sono reliquie immobili, non sono scritte una volta per sempre; si trasmettono, si tramandano e dunque nel fluire si modificano. Ma nessuno pensa alla purezza delle tradizioni sociali, che sono fondate sull’imperfezione umana e sull’impurità della vita. Perché questo non dovrebbe tradursi in tutela della nostra tradizione alimentare, difesa delle tradizioni gastronomiche, dei prodotti a chilometro zero, del principio di prossimità a tutti i livelli? Perché dovremmo concludere scioccamente, come ha detto qualcuno, che l’enogastronomia nostrana è made in Usa?

Poco senso ha dire: vedrete che fra secoli, come fu per la patata e il pomodoro, anche con la farina d’insetti si faranno piatti formidabili, con la carne sintetica faranno dei magnifici ragù, ci sarà pure la fiorentina al sangue sintetico. Non lo escludo. Ma vivo nella realtà e oggi so che non è così, preferisco i cibi nostrani. Non farei il difficile se avessi da mangiare solo cibi ogm; ma finché posso scegliere preferisco quel che proviene dall’amorevole consuetudine dei cibi che mi riportano a mia madre, al mio paese, al sud, all’Italia; preferisco restare nel solco di una piccola ma autentica tradizione nostrana, mentre voi per partito preso tra il nostrano e l’estraneo, elogiate l’estraneo.

Se non fa differenza la farina d’insetti dalla farina integrale nostrana, avete già perso il gusto di vivere, il piacere della differenza e delle cose di sempre. Siete alieni, solo perché razionalmente avete stabilito che come le patate cinque secoli fa, così noi un domani non mangeremo più quella roba ma i nuovi cibi sintetici o altro. Ma tra secoli la cosa non ci riguarda; la tradizione è una cosa vera, concreta, che ti tocca adesso, passa ora di mani in mani. E oggi va difesa. Se è per questo, quand’ero bambino si cantava: “Nel duemila noi non mangeremo più gli spaghetti col ragù, solo pillole”. E invece, sessant’anni dopo continuiamo a mangiare spaghetti e gustare il ragù.

Sparecchiata la tavola, vorrei infine dire a coloro che insorgono contro la difesa delle tradizioni gastronomiche nostrane (ma se poi le difendeva a sinistra Carlin Petrini, anziché a destra la Meloni, vi andava bene?) che l’amore per la tradizione è nel principio di quella continuità, nel vivo tramandarsi di generazione. Non è un esame del sangue o una ricerca genealogica sull’incontaminata, autoctona matrice dei prodotti. Benché tedesca, non importa stabilire che la patata sia di pura razza ariana o geneticamente nostrana. Ma che la patata entra nelle nostre cucine come la vedono in tutto il mondo ma poi esce in uno sformato delizioso. Avete voglia a dire che però il riso è cinese, la patata americana e le cozze tunisine. Riso, patate e cozze, insieme, come si fa da noi, è una gustosa, inconfondibile tradizione.

(Panorama n.16)