Ma la politica non puo’ renderci felici

𝐌𝐚 𝐥𝐚 𝐩𝐨𝐥𝐢𝐭𝐢𝐜𝐚 𝐧𝐨𝐧 𝐩𝐮𝐨’ 𝐫𝐞𝐧𝐝𝐞𝐫𝐜𝐢 𝐟𝐞𝐥𝐢𝐜𝐢
La scuola del “Fatto quotidiano” ha voluto chiudere domenica scorsa il suo ciclo di incontri tra autori di destra e di sinistra sul tema della felicità.
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Ma la politica non puo’ renderci felici
di Marcello Veneziani
Pubblicato il 09 Aprile 2023

La scuola del “Fatto quotidiano” ha voluto chiudere domenica scorsa il suo ciclo di incontri tra autori di destra e di sinistra sul tema della felicità. Si confrontavano al cinema Farnese in Roma Domenico De Masi, autore di un saggio, La felicità negata (ed. Einaudi) ed io, autore di Scontenti (ed. Marsilio). Il filo conduttore era il rapporto tra politica e felicità, visto da destra e da sinistra. Ho contestato in premessa il tema, ovvero il legame tra politica e felicità e tra democrazia e felicità.

Guardiamo la realtà. Per cominciare, i popoli più felici non sono certo gli scandinavi o i paesi dove la democrazia, la libertà e le regole funzionano da più tempo. Ma sono i popoli tropicali, caraibici, africani, asiatici come il Regno del Bhutan che capeggia la classifica del prodotto interno lordo di felicità; sono più felici le società giovani, arretrate, ignoranti, anche povere, isolate rispetto al mondo globale, poco o per nulla democratiche o progredite. Perché l’indole dei popoli, il clima, l’età media, le energie vitali, le tradizioni di un paese contano più dei regimi e delle norme. Non vedete quanto sono tristi, isterici e rancorosi, violacei, tutti i fanatici della Norma, inclusi i forcaioli del giustizialismo? E quanto erano arrabbiati tutti coloro che dicevano dai tempi del ’68 in poi che “il personale è politico” e la felicità va perseguita collettivamente tramite il “tutto è politica”? Non è forse vero che tutte le volte che si è preteso di realizzare i paradisi in terra, si sono prodotti gli inferni? La felicità non può essere somministrata e nemmeno garantita dalle leggi e dalle democrazie, dai collettivi e dai movimenti, non esiste il welfare della felicità o peggio lo statalismo della felicità (e neanche l’inverso, il liberismo felicemente selvaggio); perché la felicità non investe la sfera pubblica ma privata, attiene al rapporto tra il cosmo e l’intimità, tra l’uomo e la sua vita, tra una persona e i suoi legami di prossimità, senza passare dalla politica, dall’ideologia e dalle regole.

Un tempo si diceva dei sovrani che erano “felicemente regnanti”; poi quando la sovranità passò al popolo si pretese di rendere felici i popoli, al punto che la democrazia americana tutela il diritto alla ricerca della felicità. Quel diritto alla felicità, sancito dalla Costituzione degli Usa, è all’origine della presente confusione tra diritti e desideri. I desideri non possono essere sanciti dalla legge che si occupa di diritti e doveri, al più di bene comune. La felicità dei popoli non passa dalla politica. Il potere può cagionare scontentezza, paura e sofferenza. Ha cioè potere negativo; può mortificare più che produrre la felicità.

Se devo collegare la politica alla felicità, anche ricordando giovanili esperienze personali, la collego alle passioni civili, all’ardore giovanile, al sentirsi un noi, una comunità vivente; penso ai bei momenti e alle “belle bandiere” che sventolavamo incuranti delle ostilità; dunque non a un programma politico o a una realizzazione governativa; ma a un fervore ideale, uno stato nascente, l’ebbrezza di stare insieme in una piazza, in una sala, tramite un simbolo, un rito e un mito comunitario. Ma la politica che promette la felicità è utopia o impostura, comunque illusione.

La felicità è leggera e volatile, come un soffio, balena a nostra insaputa. Divina cecità, vede a occhi chiusi. La felicità non s’abbina alla Repubblica e alle Leggi. Quanto infelice è un’epoca che esalta la felicità e vive nel suo culto; ne scrive, ne canta, ne parla, inonda di auguri e di buoni auspici. La vita per loro può rinunciare alla verità e alla dignità, alla libertà e all’amore, alla conoscenza e alla pietà, nel nome divino della felicità. Sono convinti che la felicità li contenga tutti, o li renda tutti superflui, e invece la felicità è la sospensione della vita; non è il risveglio ma il sogno. La felicità sparisce appena è desiderata, arriva inattesa, è ospite labile, presto latitante. Ti perdi nel suo spumeggiare. La felicità di perdersi durerà pochi istanti, poi ti resterà, al più, sul corpo e nella mente solo una patina di benessere. Quella è l’impronta che lascia la felicità.

Nella lingua dei padri, felice significava fertile, fecondo, fruttuoso; si diceva ad esempio Campania Felix per alludere proprio a questa ricchezza. Oggi la felicità ha un significato egoistico, narcisistico, comunque collegato al proprio star bene; è individualista, la felicità, nella versione odierna, cioè quanto di meno politico ci possa essere. Non è questione di destra e di sinistra.

La felicità non è uno stato civile ma una carezza, è il convergere fugace di clima, sospensione e gesti, di solitudine beata o combaciante compagnia. La felicità non si lascia agguantare, semmai ti agguanta; presto svanisce. Non è un programma di vita ma un fuori programma; figuriamoci se può risiedere nei programmi politici.

La felicità è attesa o ricordo, sogno o amnesia. Chi si dice felice, nel momento in cui lo dice, sta solo ricordando o pregustando, o peggio simula uno stato che ha conosciuto in passato o professa una speranza e mima la gioia per propiziarne l’avvento. Quando sei cosciente non è presente, quando è presente non sei cosciente. La felicità ha il cuore aperto ma gli occhi chiusi. Ha il passo rapido e le mani lievi. La felicità è volatile e vola in fretta, l’umanità è terrestre e cammina lentamente.

(Panorama, n.15)