Scena dalla vita napoletana – Napoli veduta in 15 giorni

RICERCA EFFETTUATA SU “GOOGLE LIBRI” DAL LIBRO ” SCENE DALLA VITA NAPOLETANA-

DI DAVID SILVAGNI ” -Roma-1872

da pag.25 a 43

COPERTINE 640

 

CAPITOLO II.
Napoli veduta in 15 giorni.
Le grandi città non producono sempre al visitatore le stesse impressioni. Queste per solito sono poco buone se il viaggiatore si trtiene breve tempo nella città visitata, e cambiano totalmente ove la stessa persona vi ritorni e vi faccia più lunga dimora. Un mio amico venne a Napoli sul principio del verno del 1867 e s’incontrò con una tale continuità di giorni piovosi che se ne partì dopo aver veduto ben poche cose di Napoli e dei dintorni e, con la persuasione che la stagione d’inverno fosse pessima in quella città. Io ricordo d’aver veduto Milano per la prima volta, parecchi anni or sono, quando non era ingrandita ed abbellita come è adesso; vi giunsi in una giornata nebbiosa dopo un viaggio assai malinconico. L’animo mio non era disposto a buone impressioni. Mi reco subito sulla piazza del duomo, vi giungo, e mentre mi attendeva che mi si aprisse d’innanzi una spaziosa piazza per osservare il gran monumento, do quasi del naso sulle pareti della basilica.

 

 

Io rimasi mortificato pei buoni ambrosiani che mi avevano magnificato quel gran Monumento cristiano, e ,che lo tenevano quasi nascosto dietro alcune casipole che ora fortunatamente sono state demolite. Quella prima impressione sfavorevole fu funesta per tutto il tempo che rimasi allora a Milano, ma assai diverse furono le mie impressioni ed osservazioni quando feci ritorno in quella simpatica città.

Allorchè fui la prima alta a Napoli, non uscivo di Roma allora allora. Aveva già piena conoscenza di tutta l’Italia centrale e settentrionale, ed aveva visitata la Francia, la Svizzera e la Savoia, e quindi nel recarmi a vedere la terza città di Europa, non vi giungeva con quelle idee vergini che avevano guidato il nonno nelle sue visite alla bella Partenope.
M’imbarcai a Livorno e durante il tragitto soffrii assai. Era il piroscafo giunto all’altezza di Gaeta in piena notte, ed io cominciava a riposare. D’un tratto odo grida disperate che dicevano : Ferma la macchina, ferma! un fanale, un fanale! Balzai dalla mia cuccetta, e la prima idea che mi passò per la testa fu che noi fossimo sul punto di urtare con qualche altra nave o di rompere contro uno scoglio. Domandai ripetutamente, ma invano, ai marinai che mi passavano rapidamente dinnanzi, quale sventura fosse per minacciarci. Finalmente scorgo una imbarcazione che si avvicinava al nostro legno, che difatti erasi arrestato nel suo cammino, e veggo depositare. sul cassero della nave un corpo di donna tratto dall’onde. Era una viabgiatrice tedesca, madre di un giovane che si recava a Napoli con la sua sposa novella, e che, presa da un furore di cui ignoro la ragione, si era gettata in mare. Quella donna era morta.
Io ricevetti una ben trista impressione da quell’avvenimento funesto, ma vinto di nuovo dal male di mare dovetti tornare a coricarmi e non ebbi forza di rizzarmi più fino a che non giunsi in porto innanzi allo scalo della Immacolatella.
Erano i primi giorni del dicembre 1860. Garibaldi aveva conquistato la Sicilia, ed aveva battuto i borbonici sul continente; ma Capua, Messina, Gaeta ed altre piazze forti stavano ancora per Francesco II. Garibaldi non potendo espugnare Capua, ne lasciò la cura alle truppe regolari, e dopo averla presa ed ordinato un Governo dittatoriale in Napoli, si ritirò magnanimamente nella sua Caprera, povera ma non oscura. L’animo mio, compreso da estrema meraviglia, si preparava a vedere la grande metropoli e riconoscere gli effetti morali di una così singolare e subitanea rivoluzione.
Salendo i gradini dello scalo una sentinella armata di fucile, e che non mi sembrò una guardia doganale, domandò a me e ad un mio compagno di viaggio una bottiglia (una mancia). Rimasi stupefatto di quel caso che mi dava una infelice idea dell’avarizia e bassezza delle truppe, già borboniche, ed un sottoufficiale che notò la mia meraviglia fece comprendere al soldato che aveva fatto una scioccherìa, e tutto finì là. Saliti in una carrozza aperta, incomoda e poco pulita, si cominciò a cercare un albergo che ci ricevesse, e come Dio volle fummo alloggiati a ben caro prezzo alle Crocelle, incontro alla villetta reale di Chiatamone, in vista del mare. Innanzi a noi dimorava Alessandro Dumas, a cui il dittatore aveva dato in uso quella regia residenza e che v’aveva fondato l’Indipendente. Insieme al Dumas v’era un mio amico che avevo lasciato allievo in un grande laboratorio chimico di Parigi, e che ritrovai giornalista. Nella stessa locanda era alloggiato un ex sergente del papa, che aveva disertato da pochi mesi, e che vestiva una divisa rossa, gallonata d’oro di ufficiale garibaldino, e se la viveva da gran signore. Provai una brutta impressione da questi primi frutti della rivoluzione, che certo non erano nè le più grandi nè le più strane metamorfosi di quei giorni.
Visitato da un mio simpatico amico Enrico L. che aveva conosciuto in Roma mentre vi studiava pittura, e che aveva scambiato i pennelli colla carabina del bersagliere a S. Martino, lo ritrovai con una bella cicatrice sulla faccia, qualche anno di più sulle spalle, e qualche scudo di meno in tasca, ma sempre allegro, giovane ed amabilissimo. Con lui incominciai ad aggirarmi per le vie di Napoli, ed egli non mi lasciò più, durante il breve tempo che vi rimasi.
Condottomi subito sulla piazza della reggia, oggi detta del Plebiscito, non vi trovai le due grandiose statue equestri che ne adornano la piazza, perchè una specie di arco di trionfo le aveva nascoste, affinchè i due re borboni di bronzo, non vedessero dall’alto dei loro piedestalli quanto accadeva allora in Napoli. Il palazzo reale mi parve grande e bello, e la piazza assai ampia. Ameno il giardino che gli sta ad un dei lati, chiuso da cancelli che rinserrano pilastri a cui sono sovrapposti due cancelli di bronzo con due giovani che ne tengono i freni, dono di Niccolò di Russia al re Ferdinando II. Bella la parte del palazzo col giardino pensile che prospetta il mare.
Di lì passai a Toledo, che non era ingombra di baracche come al tempo del nonno, e che mi parve una bella strada, ma da non doversi magnificare soverchiamente. Proseguendo per Toledo ci avanzammo fino al ponte detto della Sanità, che unisce quella collina all’altra di Capodimont; poi retrocedendo per l’amplis¬sima strada di Foria pel corso Garibaldi, scendemmo alla Marina, e lungo la medesima si passò innanzi al Porto, al largo del Castello, e, seguendo il mare, a Santa Lucia a Chiatamone e alla villa Reale nella riviera di Chiaia, e finalmente a Chiaia per ritornare in faccia alla reggia. Il giro si fece in vettura, e già era sera quando scendemmo a Toledo da un trattore per ristorarci. La nostra osteria, che non meritava nome migliore, era pienissima di militari rossi ed azzurri. Pure, dopo qualche aspettare, giunsero i famosi maccheroni, conditi precisamente come li ebbe mio nonno mezzo secolo fa. I maccheroni in tanti anni non avevano fatto un progresso di un passo, come la città di Napoli non si era cambiata nelle sue vie e nelle sne piazze. Infatti il Murat fece costruire la grande strada di Capodimonte, e da quel tempo non si era aperta fino al 1852 alcun’altra via, tranne quella fatta costruire da Ferdinando II, detta ora Vittorio Emanuele, e che adesso si sta adornando di fabbriche. Quindi Napoli, alquanto ripulita, io la ritrovava nel 1860 come l’aveva lasciata il nonno tel 1825, salvo la basilica di S. Francesco di Paola, col colonnato che la precede, il quale allora era in costruzione.
Dico tutto questo perchè nei giorni seguenti cercai invano altre piazze ed altre strade egualmente ampie, sicchè la buona impressione ricevuta il primo giorno nel percorrere quelle magnifiche contrade, cessò d’un tratto per dar luogo a poco favorevoli osservazioni. Infatti di fianco o paralelle a Toledo erano e sono strade strette dette perciò vichi, irregolari, scoscesi, e male lastricati, chiusi da case che sembrano torri, poste l’una su l’altra, e l’una addosso all’altra.
Così Chiaia, e la Riviera, Foria, la Marina, Capodimonte e poche altre ampie strade sono fiancheggiate, segate e incrocicchiate da altri vichi dello stesso genere. I quartieri poi del Porto del Pendino e del Mercato sono così angusti ed irregolari, da rendere piuttosto immagine di viottoli scuri di un laberinto, che di strade di una città moderna. Invano, dunque ricercava altre strade grandiose, altre piazze, o giardini. Piazze e strade non ve n’erano più. Alberi e piante non li vidi che alla Villa reale ed al giardino botanico, poche fontane, e con pochissima acqua.
Così ricercai vanamente altre trattorie oltre quella dell’albergo, e delle locande. Non altro grande caffè che quello detto d’Europa, al largo S. Ferdinando, che è grande quanto uno dei più piccoli caffè di Torino. Così le botteghe frequenti ma modeste assai, ed i magazzini non splendidi, nè per grandezza di locale nè per bellezza di arredi, nè per copia e varietà di merci. E il porto mercantile piccolo in guisa, che mi parve certo non più- grande del porto Mediceo di Livorno, ed assai più piccolo del nuovo porto; di quella stessa città. Piccola la Dogana, ed i magazzini dipendenti. Meschini e mal tenuti i Mercati, brutta e meschina la Pescheria. Non parlo delle due stazioni delle ferrovie romane e meridionali, l’una delle qualí non giungeva più in là di Cassino, e l’altra, conduceva a Pompei e Castellamare!

Però le residenze reali di Napoli, Capodimonte e Portici erano magnifiche, stupenda la collezione dei bronzi al Museo, colossali, l’Al bergo dei poveri e la caserma detta i Granili, bello e grandioso il teatro di S. Carlo, mervigliosa la regia di Caserta, e non meno me¬ravigliosa la città di Pompei, che risorge quasi integra dalle sue ceneri. Cosicchè dissi a me stesso che Napoli era bellissima per chi non ne voleva vedere che il lato piacevole, dimorare alla riviera di Chiaia prospiciente il mare, passeggiare alla Villa, farsi trasportare in carrozza per Toledo e salire di là al delizioso parco di Capodimonte, frequentare il teatro, deliziarsi a Caserta, sprofondarsi nelle antichità (raccolte nel Museo) che si scoprono a Pompei ed Ercolano, cenare allo scoglio di Frisa, fare in fine la vita del fannullone in mezzo alle bellezze della natura e dell’arte, era cosa facile a Napoli, a condizione di essere un signore e di rimanere circoscritto quasi sempre nei luoghi che ho nominato, senza curarsi di chi sta male alloggiato, mal nutrito, mal vestito; senza badare alle conseguenze anti-igieniche di quelle strade strette, senza luce e prive di aria, senza riflettere alla situazione di quell’immensa popolazione di proletari e dell’avvenire di così grande città, che esercita tanta influenza su tutte le provincie meridionali. Queste furono le prime impressioni che ricevetti alla vista della città.
La popolazione poi mi parve in quel momento assai bellicosa. Ogni uomo, almeno ogni giovane, era armato, chi di fucile, chi di spada, chi di pistole; ed esercitavasi alle armi col tirare fucilate dalle finestre e sulle strade in onore della Concezione e di Gesù bambino. Non compresi bene il perchè di quell’inutile armamento che mi ricordò le città lombarde e venete nel 1848. Poi v’era la Guardia Nazionale veramente elegantissima, con una divisa turchino-scura, guarnita di bande di colore amaranto. Poi le truppe reali, non bellamente vestite ma con piglio guerresco, poi una enorme quantità di garibaldini in tunica rossa e berrette rosso con aspetto più o meno militare; finalmente i volontari esteri assai sfarzosamente vestiti da fare uno strano contrapposto con certi cenciosi volontari, non so se calabresi o d’altre provincie, con giubba corta, calzoni corti, e cappello acuminato alla foggia, sto per dire, dei briganti, se non fosse illecito il paragone. Vidi pure moltissima plebaglia d’ambo i sessi; gli uomini luridi e seminudi, le donne vestite sì, ma senza alcun gusto, coi capelli raccolti entro un fazzoletto di cotone, e le vesti senza crinolino.
Non parlo dei bambini cenciosi e degli accattoncelli. Codesti bimbi li vedevi la sera sulla piazza stessa della reggia dormire, facendo come una ruota, appoggiando ciascuno la testa sul fianco del compagno, mentre in mezzo a loro ardevano alcune frasche miste a pezzi di legno, rubati chi sa dove, per riscaldarsi nelle lunghe nottate d’inverno; le quali se non sono rigidissime, certamente non sono tepide, nè senza brina. A chi appartenevano tutti quei disgraziati fanciulli? ne prendeva cura nessuno il giorno se erano abbandonati in tal guisa la notte ?

Ma in quei giorni era arrivato il re Vittorio Emanuele, e più d’una occasione mi si presentava per esaminare meglio il paese.
Il re passò una rivista al Campo di Marte, posto sulla collina di Capodichino, circa due miglia da Napoli. Il campo era vastissimo, il concorso della gente era grande. Le truppe passate in rassegna erano poche e non splendidamente vestite. I volontari disciolti in queì giorni non erano presenti alla rivista, e la, Guardia Nazionale, composta di 12 legioni, per venire numerosa, non era tutta con la divisa d’ordinanza. Nondimeno il re era atteso ansiosamente per Foria, adornata di fiori e di archi di trionfo, e per Toledo, ove tutti i balconi, pavesati con bandiere e con tappeti, erano ripieni di leggiadre signore.
Ma chi condusse il re in quel giorno non lo fece passare per Toledo, e forse cento mila persone rimasero con la curiosità in corpo di vederlo. Grande errore fu quello certamente, ed uno dei primi atti di noncuranza verso un popolo ansioso di vedere il re, e che era abituato alle splendide mostre di Piedigrotta, e alla maestà del monarca circondato da una Corte sfarzosa e numerosa.
La sera Toledo era illuminata. Una popolazione straordinaria a guisa di torrente impetuoso inondava le vie della città. Un gran carro si aggirava in mezzo a quella moltitudine con un concerto d’istrumenti ed un coro di voci. In altri luoghi ed in ispecie sulla piazza innanzi alla reggia erano innalzati palchi con suonatori e cantanti.
Qua e là principiarono i cori e si suonò l’inno reale. Ma alle prime battuta la plebe incominciò a gridare : vogliamo l’inno! (inten-devano l’inno del Mercantini, composto nel 1859,poi Cacciatori delle Alpi e che poi fu chiamato l’inno di Garibaldi) e con tanta insistenza che l’inno reale fu tralasciato ed invece suonato ripetutamente e cantato l’inno di Garibaldi. Cosi la plebe era armata, ma sempre cenciosa, erano in armi i volontari, ma si discioglievano, le truppe borboniche si sbandavano, si rompeva il freno ad ogni principio di autorità. Le truppe regie dopo presa Capua, assediavano Messina, Civitella del Tronto e Gaeta, e frattanto la plebe scatenata, che non fece nulla pel re scaduto, di cui ne disertava le file, nulla pel re sopravvenuto che non imparava neppure a conoscere, dava il primo saggio dell’uso che faceva della male acquistata libertà domandando l’inno di Garibaldi, e sparando archibugiate all’aria!
Torno al mio amico Enrico. Nei pochi giorni che rimasi in Napoli egli mi fece vedere tutto ciò che di più rimarchevole v’ha nella città e, nei dintorni. Non vi starò quindi a narrare le nostre gite a Pozzuoli ed a Baia, a Castellamare e a Sorrento, e le visite al Museo, alle Gallerie, a Portici, a Capodimonte,ecc.
Non voglio defraudarvi però di due parole sul nostro viaggio a Caserta. Giunti alla stazione, dopo molto pigiarsi, si ottennero due biglietti di 1a classe. Ma non pensate che si andasse nel compartimento assegnato a quellaa classe. Tutta la stazione era ingombra di garibaldini, i quali come api in un alveare, avevano invaso le vetture da ogni parte. Dentro se ne collocarono quanti potevano uno sull’atro come sardelle : molti salirono sul tetto delle carrozze, altri si reggevano di fianco ai montatoi, altri erano arrampicati davanti e di dietro, non risparmiando il posto, nè del conduttore, nè dei macchinisti, nè dei guardafreni.
Per quanto alcuni ufficiali gridassero di discendere, nessuno obbedì all’autorevole voce dei propri capi e noi dubitavamo assai di poterci muovere con quel carico singolare. Tirati avanti da una locomotiva, spinti da un’altra dietro, finalmente ci muovemmo o meglio ci strascinammo fino a Cancello, all’incrociamento della via di Nola. Quivi attendevano il convoglio altri garibaldini, che si aggiunsero a quelli che vi stavano sopra, in guisa che il treno non poteva più avanzare, e le ruotaie soverchiate dal peso s’affondavano nella terra, insieme con le traverse. Qui ricominciarono le inutili grida degli ufficiali e le bestemmie dei volontari, di cui la caparbietà fu più violenta dell’inerzia delle locomotive, le quali, forse spaventate da quell’orrendo fracasso e sapendo che coi volontari non si scherza, pensarono di porsi in viaggio di nuovo, e finalmente dopo, circa tre ore ci condussero innanzi la reggia del Vanvitelli, a cui si perviene da Napoli in meno di due ore e mezzo con una vettura tirata da buoni cavalli.
Tralascio la descrizione di questo colossale monumento innalzato da Carlo III sui disegni del Vanvitelli (che sia detto con modestia, era mio concittadino, e fu inoltre autore dei ponti di Maddaloni su cui passa l’acquedotto Carolino, e di altre pregevolissime opere). È questo un palazzo unico al mondo, e di cui è impossibile formarsi una idea, senza vederlo. Così non parlo del magnifico parco che gli sta dietro, del giardino inglese ove si ammira, in grandi proporzioni, una lussureggiante vegetazione tropicale, e nemmeno vi parlerò della stupenda cascata di un fiume d’acqua che alimenta – canali, laghi e fontane ; tacerò finalmente del ricchissimo teatro di Corte decorato con le colonne di alabastro del Tempio di Serapide, e della non meno ricca cappella ; vi dirò solo due parole sull’impressione che provai visitando la stanza dove morì Ferdinando II.
visitando la stanza dove morì Ferdinando II.

Quella stanza, appena morto il monarca, fu spogliata degli arredi che vi esistevano, e questi vennero bruciati, i parati vi furono strappati, le mura scrostate, raschiate, e poi imbiancate ; infine si direbbe che il figlio cercasse di distruggere ogni memoria paterna, e, ciò che è più singolare, e sto per dire solenne, al posto di quegli arredi, e di quel letto bruciato furono collocati gli arredi di Gioacchino Murat, ed il talamo di quell’Achille moderno, le cui imprese gloriose sonovi appunto simboleggiate con armi scolpite in oro. Quante e quanto eloquenti lezioni in quella stanza mortuaria del re, spentosi con la coscienza di lasciar il regno suo sul punto di crollare!
Non meno profonda impressione ricevetti dalla galleria ove si conservano, tra gli altri ritratti, un busto in cera di Maria Carolina, quello di Luigi XVI, di Napoleone e di tutti i Bonaparte, tra cui un ritratto grande al naturale di Napoleone II in divisa di cadetto austriaco, il ritratto della duchessa d’Orleans e del conte di Parigi, quelli di tutta la famiglia borbonica, ed uno di Maria Sofia e Francesco II, che sono i più brutti della collezione.
Avrei molte altre cose da dire intorno alla mia breve dimora in Napoli. Potrei narrarvi la presentazione del plebiscito delle provincie già pontificie, alla quale ebbi l’onore di assistere, e il pranzo di gala a Corte, a cui oltre le Deputazioni umbre e marchigiane erano presenti parecchi personaggi ora scomparsi dalla scena del mondo; e fra questi ricordo il guardasigilli Cassinis, il ministro della guerra Fanti, il generale Topputi, il luogotenente di S. M. Farini, il tenente-generale Dalla Rovere, il commissario regio Valerio, l’ammiraglio Persano… Ma non parliamo dei morti.
Prima che io partissi si costituì la Luogotenenza delle provincie meridionali, della quale facevano parte egregi patrioti e giureconsulti, ma a cui fu posto a capo il Farini, invece di un membro della famiglia reale, annientando così fino dai primi giorni il prestigio della dinastia. Già si erano licenziate tutte le cariche di Corte, facendo posto a molta gente nuova, e continuossi a cacciare i vecchi sotto la speciosa accusa di borbonismo ! Eppure chi sa che cosa dovevano essere coloro che in abito nero e cravatta bianca si pigiavano alle porte della reggia per iscrivere il loro nome e congratularsi con S. M. di essere scampata all’arma omicida di Agesilao Milano ; chi sa chi erano quelle masse compatte che vestite a lutto percorsero per otto giorni le vie di Napoli, appena Ferdinando esalò l’ultimo respiro, sicchè divenne atto di civile coraggio il mostrarsi al pubblico non abbrunato ; chi sa chi erano coloro infine che in migliaia di vetture si condussero ripetutamente alla passeggiata di Capodimonte, residenza del novello monarca per accattare un sorriso di Francesco II.
Liberali della vigilia, perchè vedevano crollare inevitabilmente il trono borbonico, taluni antichi menestrelli di Ferdinando, altri recentissimi menestrelli, per non parlare di adulatori, cortigiani, trescanti e spie, divennero dun tratto liberali sfegatati. Ed oggi non essendovi più gloria a mostrarsi tali, sono divenuti da codini o assolutisti che erano, repubblicani o mazziniani !
Eppure fu per dar soddisfazione a costoro che si seguitò a rinviare impiegati, e si finì, col disciogliere l’esercito, frantumandolo, disperdendolo, cacciando sul lastrico forse 10 mila famiglie di ufficiali, sempre col pretesto che erano borbonici (chi sa che cosa dovevano essere) e creando così un malcontento poderoso, un odio implacabile, padre della reazione che è vinta, del brigantaggio che perdura, e dei malumori che dureranno un pezzo.
Finalmente si obbliò (noto gli errori più grossi) che Napoli si era fatta grande per le ricchezze versatevi da Carlo III, Ferdinando IV, Gioacchino Muràt e Ferdinando II, e che la terza Metropoli d’Europa non può sussistere e molto meno progredire con gli scarsi mezzi di cui può disporre un Municipio, il quale non ha facoltà d’imporre tasse sopra forse cinquantamila famiglie di nulla abbienti, che non hanno arte, ricovero, vesti, e appena cattivo e scarso nutrimento.
So che tutti codesti errori non furono commessi dagli stessi uomini, ed in un uguale periodo di tempo; ma so pure che al chiudersi del 1860, cioè appena 4 mesi dopo l’ingresso del Garibaldi, si coglievano già largamente i frutti di una così dissennata politica.
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