MORS TUA, VITA MEA!

MORS TUA, VITA MEA!
di Valentino Romano (*)

La storia di questa puntata della rubrica risale al XVI secolo. La racconto per due motivi: il primo è dimostrare, ove pure ce ne fosse bisogno, che – ad onta di quanto sostengono taluni revanscisti nostalgici – la Storia del mondo non inizia nel 1860 e che il banditismo o, se preferite il brigantaggio, ha origini ben più remote; il secondo è dato dalla considerazione che- verificato quanto successe nel 1860 e dintorni – tre secoli di Storia non avevano prodotto mutamenti fondamentali nell’esercizio della giustizia, se si eccettua che i carnefici prima si chiamavano “algozini” e dopo …”truppe regie”. E c’è pure un’ulteriore riflessione. Conosciamo questa storia grazie a un protocollo notarile dell’epoca: per la serie “ gli archivi tutti, nessuno escluso, perfino i “fondi” più noiosi come quelli notarili, possono riservare sorprese e aprire squarci di conoscenza. Basta essere disponibili a farsi venire i calli laddove non batte mai il sole!
Andiamo alla nostra storia:
il 15 settembre 1595 Francesco Venzi e Domenico Carlino, “algozini” della Regia Udienza di Terra d’Otranto, con atto rogato dal notaio Lucrezio Perrone di Lecce, chiedono che il magnifico Cola Maria De Loria di Gravina, inquisito nella R. Udienza e nella Corte di Leporano per l’omicidio di Giovanni Andrea Doto, goda del Reale Indulto. In cambio – in virtù dei Regi Bandi e delle Regie Prammatiche – offrono la testa mozza di un fuorgiudicato sanvitese.
E’ necessario, a questo punto, un breve riferimento alla normativa repressiva vigente all’epoca, la cosiddetta legislazione “bannale”: il 26 febbraio 1563 Filippo II – visti inutili i precedenti legislativi atti a reprimere il diffondersi nel banditismo nel Viceregno spagnolo di Napoli – emana un nuovo provvedimento di clemenza, in vigore per un semestre, con il quale chiunque si trovi nello stato di contumace o fuoruscito deve presentarsi al Tribunale competente entro dieci giorni dall’emanazione del bando: decorso inutilmente questo termine i “diffidati, ribelli, contumaci, banditi” vengono sottoposti alla “forjudica”. L’applicazione di tale istituto giuridico comporta l’automatica ed irreversibile attribuzione al contumace della qualifica di “pubblico inimico” e, quindi, la possibilità per ognuno di ucciderlo impunemente e di ricevere un sostanzioso premio in denaro. Successivamente simili bandi vengono più volte reiterati (come non andare con il pensiero alle grida di manzoniana memoria?), raffinati ed inaspriti fino al punto di prevedere (prammatica del 21 gennaio 1586) lo sfratto dal Regno per i parenti dei banditi fino al quarto grado ed anche la loro carcerazione in caso di connivenza. Inoltre, viene prevista (prammatica del 21 marzo 1592) la possibilità – per chi ha dei conti da regolare con la giustizia – di ottenere l’indulto, dimostrando di aver ucciso o di aver fatto uccidere un fuorgiudicato.
Ed è in quest’ottica che si deve inquadrare la triste vicenda del brigante Sactio Greco, della terra di “Sancto Vito deli Sclavi” (l’attuale San Vito dei Normanni) che si dà alla macchia nell’anno 1587: negli otto anni successivi si rende colpevole di innumerevoli reati per i quali vengono istruiti decine di processi presso la Regia Udienza di Lecce, in S. Vito, Ostuni, Ceglie, Grottaglie e Francavilla. Greco, “capo de forasciti famosissimo che sopra di se portava diversi taglioni” è incolpato di furti nelle case, “ricattj e molti altri furti sulle pubbliche strade, di arrobamentj e homicidi” (tra cui quello di un padre e dei suoi due figli); fa evadere il fratello, sfondando la porta delle carceri di San Vito, dove è detenuto per “banna armata”; incrociandolo lungo una pubblica via, depreda un frate “zoccolante”, padre Lorenzo di S. Pietro in Galatina (Provinciale dei minori osservanti), di un orologio d’oro e delle somme di denaro che il frate porta con sé e gli brucia pure tutte le carte in suo possesso, tra cui numerosi processi contro alcuni confratelli). Padre Lorenzo, imbufalito per l’accaduto, mette una taglia di cinquanta ducati a favore di chi porti vivo o morto il bandito. L’ingente somma, unita alle altre taglie già esistenti, fa dunque del brigante una preda ambita proprio per gli algozini.
A nulla valgono, però, i tentativi di catturare l’inafferrabile Greco: nessuna delle misure coercitive subite ha prodotto l’effetto; non è servito – ad esempio – che alcuni parenti “…per ordine della R. Udienza” siano “stati discacciati de loro case”, per costringerli a “darli in mano detto Sactio”, né che siano stato messi in carcere “la sorella e lo marito e la madre…”.
Colpito da bando reale, non si presenta nel tempo stabilito e si ritrova “forgiudicato”.
Il caso vuole che l’8 maggio 1595, nei pressi della torre di Andrea Albrizio (già vice console di Venezia), a tre miglia da Ostuni, lungo la strada che porta a Francavilla, due “algozini” (Venzi e Carlino) incontrino proprio il nostro tagliagole che si aggira in quelle contrade con un suo compagno. [Per inciso, l’“algozino” (da cui il lemma “aguzzino”) erano dei collaboratori dei Tribunali regi, con funzioni a metà tra gli attuali cancellieri e le guardie carcerarie. Ma esercitavano anche, e con maggior impegno e profitto, la mansione di bounty killer, girando per le contrade a caccia di forbanniti].
Venzi e Carlino se ne tornano a Lecce da Ostuni, dopo aver assistito per due anni (dal 13 maggio 1593 al maggio 1595) Girolamo Zabatti, giudice “napolitano” di Ostuni e commissario contro i fuorusciti: dopo due anni sono stati licenziati perché il giudice preferisce servirsi nella lotta al banditismo locale di abitanti di Ostuni o di altri “lochi vicini”.
I due fuorusciti sono armati fino ai denti con “scoppette storte”, “archibugetti” e armi bianche. Greco cavalca una “giomenta alla nuda” e l’altro è appiedato. I banditi, accortisi del sopraggiungere di due persone sconosciute cercano di defilarsi, prendendo una “strada traversa” e rintanandosi in un vicino bosco. Gli algozini però – pur non avendoli riconosciuti – non demordono, decidono di “andarli all’incontro per vedere che gente erano e affrettano il passo”: Greco ed il suo compagno non possono più sottrarsi all’incontro e si fermano, decisi comunque a vendere cara la pelle.
Venzi, avvicinatosi con Carlino, riconosce subito Sazio Greco e lo chiama per nome:
“Che nova, Sactio, dove se va?” e Sactio: “Chi seti voi chi mi chiamate per nome?”; “Io son Francesco Venzi”.
Ancora Sactio: “Da donde si?”; “sono de Hostunj” e Sactio “cosa andati facendo”; “siamo la Corte”; “che Corte?”; “L’Udienza!”.
A questo punto i banditi, non persa la baldanza iniziale, prorompono in un perentorio “posate l’armi birri cornuti che se no tutti duj ve ammazzamo”.
I due algozini non aspettano altro: “oggi ve faremo a vedere quanti ladri pari vostri piglieremo e voi ancora”.
E comincia il duello con Venzi che si scaglia contro Greco, giustamente, ritenuto il più pericoloso. Il sanvitese, armato di un grosso coltello “lungo due palmi” sembra inizialmente avere il sopravvento: infatti procura una ferita al sopracciglio sinistro dell’avversario. Venzi, nonostante la copiosa perdita di sangue dalla ferita, riesce a colpire al viso il capo brigante e lo disarciona, facendolo ruzzolare a terra. Avventatosi sopra, lo finisce e dà inizio ad una pratica che, pur apparendo oggi disumana, nel XVI e XVII secolo (ma utilizzata fino al 1860 e dintorni) è considerata del tutto normale: gli recide la testa, come prova estrema dell’avvenuta giustizia. L’altro bandito gli appunta contro, al costato sinistro, la “scoppetta” e fa fuoco; il “focone”, però, s’inceppa ed il colpo non parte, il bandito si dà a precipitosa fuga nel bosco e fa perdere le sue tracce.
Gli algozini possono allora portare tranquillamente a termine la macabra operazione: la testa recisa viene posta in un sacco e portata ad Ostuni.
Qui avviene il riconoscimento da parte del Capitano, del Giudice, del Sindaco e dell’addetto all’Ospedale: successivamente, con una missiva del Capitano, la testa di Sazio viene inviata alla Regia Udienza di Lecce che – non soddisfatta – provvede a far eseguire un ulteriore riconoscimento alla madre del bandito, alla sorella ed al cognato.
L’algozino ferito è curato nell’Ospedale di Ostuni e, a guarigione avvenuta, se ne torna a Lecce, dove – assieme al suo compare – si avvale degli uffici del notaio Perrone, che redige l’atto notarile (ora conservato nell’Archivio di Stato di Lecce) propedeutico della richiesta d’indulto del De Loria.
Il corpo del bandito, prelevato nel frattempo dal luogo dello scontro, è squartato in quattro pezzi, ognuno dei quali viene appeso lungo le “strade pubbliche di Lecce, Martina, Ceglie e Monopoli”.
Giustizia, infine, è fatta: le carni decomposte di Sactio possono assolvere alla funzione deterrente che il legislatore spagnolo si prefigge; l’omicida De Loria ha scontato le sue colpe, gli algozini lautamente compensati.
Mors tua, vita mea.
Queste cose avvenivano nel XVI secolo, ma le teste mozze di banditi e briganti e i loro corpi putrescenti hanno continuato ad “abbellire” le piazze dei paesi del Meridione almeno fino alla seconda metà dell’Ottocento: corsi e ricorsi storici, come direbbe il buon Vico? Forse. Una cosa è certa. Certe cose accadono quando la disumanità è al potere.
Buona domenica, amici.

(*) Promotore Carta di Venosa

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