𝐂𝐚𝐜𝐜𝐢𝐚𝐭𝐞 𝐝𝐚𝐥𝐥’𝐚𝐮𝐥𝐚 𝐠𝐥𝐢 𝐬𝐦𝐚𝐫𝐭𝐩𝐡𝐨𝐧𝐞
Che fine ha fatto la crociata ministeriale contro i telefonini in classe? Riuscirà il ministro della pubblica istruzione Giuseppe Valditara a mantenere l’impegno di silenziarli in classe?
Continua a leggere⤵️
Cacciate dall’aula gli smartphone
Che fine ha fatto la crociata ministeriale contro i telefonini in classe? Riuscirà il ministro della pubblica istruzione Giuseppe Valditara a mantenere l’impegno di silenziarli in classe?
Il tema riemerge periodicamente ma le soluzioni di solito sono sempre di mediazione, col risultato di lasciare le cose come stanno e di scaricare nel nome dell’autonomia scolastica sulle scuole e sui dirigenti scolastici la responsabilità di qualche provvedimento specifico e restrittivo. Appena si stabilisce un principio generale, subito si contemplano i casi in cui si può derogare dal criterio scelto; e da lì diventa estremamente facile, al furbo e avvocatizio mondo nostrano, trovare degli escamotage per sostenere il contrario o aggirare la norma, stabilita una quindicina d’anni fa, di lasciare fuori i telefonini dalle classi.
Che il telefonino possa essere un utile supporto didattico, francamente lo credo solo in assenza della scuola e dei docenti; può essere uno strumento integrativo fuori dalle ore scolastiche, ma ha poco senso che lo smartphone diventi un insegnante di sostegno per lo stesso docente.
Si può semmai stabilire in casi specifici e preventivati, che si possa eccezionalmente ammetterli in classe solo per una singola ricerca.
Ma è importante, anzi è fondamentale, che la scuola insegni soprattutto una cosa: la libertà e l’indipendenza dagli smartphone e la conseguente capacità di sopravvivere alcune ore senza avere tra le mani il benedetto medium universale. Non si tratta di ingaggiare crociate contro la tecnologia e contro i telefonini, ma di concepire una grande lezione di vita e di educazione per i ragazzi, e anche per certi versi, per i docenti e per le famiglie degli alunni: che l’intelligenza umana abita più mondi e non può ridursi a uno solo, né può far transitare tutta la varietà del reale da quella specie di oggetto sacro, di ostensorio, di oracolo parlante, onnisciente e televisivo. Che si usi pure il cellulare, e si benedicano i vantaggi che può dare a chi lo sa usare con accortezza e senso del limite; ma l’uomo non può dipendere da un solo arnese, non può ridurre il mondo solo a quel che vede e sente dal suo smartphone. L’uomo abita più mondi, reali e virtuali, immaginari e terreni, locali e globali, e sarebbe una perniciosa follia renderlo monocolo, monotono e monoteista nel senso feticistico del totem; deve avere più dei, essere politeista quanto a valori e strumenti d’uso. E il telefono non può surrogare e cancellare il dialogo ad personam, la fisicità dei contatti, la prossimità dei legami; e non può sostituire la natura, le esperienze dirette, l’uso degli altri sensi oltre la vista, l’incarnarsi nelle cose e non solo ridursi all’importanza del rapporto digitale; la lettura, il teatro, i rapporti diretti, de visu, e in generale la vita nel mondo degli esseri viventi.
La patologia nell’uso morboso dei cellulari, lo spettacolo avvilente di comitive in cui ciascuno è recluso nel suo piccolo, grande universo telefonico, il massimo di connessione nel massimo di sconnessione, l’incessante comunicazione virtuale a fronte di una vita incomunicante e solitaria. Certo, la dipendenza, la coazione a ripetere, a guardare ogni due minuti il display, non colpisce solo i ragazzi. Ma la scuola dovrebbe servire proprio a questo, a correggere questi vizi spontanei, indotti e virali, quando è ancora possibile fare qualcosa per rimediare; e i ragazzi sono in via di formazione, e dunque sono, almeno potenzialmente, recuperabili.
La proposta di vietare i telefonini in classe è stata naturalmente tradotta dai media, fra pregiudizi politici e ideologici, come una specie di costrizione, di rigurgito autoritario e paternalistico; invece, mai come in questo caso è una difesa della libertà, della dignità e dell’intelligenza. Certo, l’ideale sarebbe che ciascuno ci arrivasse per conto suo a non dipendere dal mezzo di comunicazione; ma la scuola ha senso se insegna qualcosa, se indica modelli di comportamento ed esempi di riferimento alternativi che permettano di avere maggiore consapevolezza e più matura libertà.
Le devastazioni che sta compiendo l’alienazione tecnologica o tecno-illogica, della nostra epoca, sono davanti ai nostri occhi. Anche la caduta del quoziente intellettivo, legata alla minore concentrazione, alle letture sempre più scarse, alle ricerche sempre più frettolose e superficiali; e all’uso conseguente, sempre più carente e impoverito del lessico, sono indubbiamente correlati a questa sovranità assoluta, e anche tirannica, dello smartphone e dei suoi parenti stretti. Non a caso il calo del quoziente intellettivo, che per decenni era in crescita permanente, è cominciato da poco più di vent’anni e coincide, guarda caso, con la dominazione del telefonino. Rischiamo di atrofizzare le nostre facoltà pensanti, a cominciare dal senso critico, per acquisire solo dimestichezza tecno-pratica. Ogni dipendenza, ogni schiavitù, genera questa progressiva alienazione, questa perdita della libertà e della varietà che è strettamente collegata ad essa. Il telefonino uniforma e conforma; e sostituisce il senso critico con l’abilità tecnica di ricerca e raggiunge esiti sempre più standardizzati e sempre meno frutto di ingegno e di originalità.
Per queste ragioni, la scuola non può inseguire a tutti i costi la società e ritenersi più incisiva se è più al passo dei tempi. Ma deve al contrario bilanciare, compensare, le tendenze prevalenti, i mezzi dominanti e l’universo funzionale imperante. La scuola deve insegnare la libertà di abitare altri mondi, oltre il presente. Non c’è scampo per la libertà e l’intelligenza degli studenti se c’è campo in aula per l’onnisciente bestiolina.
(Panorama n.51)