La fiamma dello scontento

𝐋𝐚 𝐟𝐢𝐚𝐦𝐦𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐬𝐜𝐨𝐧𝐭𝐞𝐧𝐭𝐨
La società di oggi, il mondo social, gli umori sotterranei della gente si possono dividere in tre categorie: i conformi, gli incontentabili e gli scontenti.

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La fiamma dello scontento

La società di oggi, il mondo social, gli umori sotterranei della gente si possono dividere in tre categorie: i conformi, gli incontentabili e gli scontenti.

I conformi sono coloro che accettano lo stato di cose o ne sono direttamente agenti e funzionari, non discutono sui poteri e sui condizionamenti, si adeguano ai canoni dominanti del momento e si accontentano di vivere in questo modo, diffidando di ogni cambiamento. Gli incontentabili sono coloro a cui non va mai bene nulla, qualunque forma di potere o qualunque risposta al potere, sono subito propensi a bocciarla e a criticarla, ritenendo che “uno vale l’altro”, tutti fanno parte dello stesso piano nefasto. Gli scontenti invece sono coloro che non si riconoscono nel presente e nella sua dominazione, lo contrastano, ma vorrebbero cambiare le cose, pur sapendo di andare incontro a delusioni, e rendono attivo il loro scontento. Ho dedicato a loro il mio nuovo libro, che esce ora da Marsilio: s’intitola appunto Scontenti. E come sottotitolo “perché il mondo non ci piace” (pp.176, 18 euro). Scontenti affronta l’altra metà del mondo rispetto a La Cappa di cui ho scritto in precedenza: in quel libro esaminavo l’emisfero che sovrasta e incombe sul nostro mondo, in Scontenti parlo invece di coloro che sono nell’emisfero di sotto e vivono in un mondo in cui si sentono estranei se non ostili.

Non è la rabbia né l’odio e nemmeno il narcisismo, come si ripete, la molla che spinge molta gente a ribellarsi e detestare; ma qualcosa di più profondo che li precede. Si tratta di uno stato d’animo personale, civile ed epocale che solo dopo muta in protesta e rivolta: è la scontentezza.

A lungo il potere ha puntato sulla rassegnazione, sull’accontentarsi della gente. Poi invece ha capovolto la prospettiva e ha puntato sullo scontento, sull’insoddisfazione permanente e la voglia di essere e avere altro, per asservirci tramite i consumi e i desideri e renderci così più dipendenti. Il potere regge da alcuni anni sulla manipolazione della scontentezza e sulla trasformazione di questo sentimento/risentimento in rivalsa privata, in desiderio fluido di cambiare status, cambiare corpo, cambiare sesso, cambiare vita, cambiare nazione. Ma la scontentezza è sfuggita di mano e incrociandosi con i malesseri, le restrizioni e le proibizioni del nostro tempo, si è fatta malcontento…

Scontenti non vuol dire infelici o malinconici. Esistono trattati e una vasta letteratura sull’infelicità, invece poco o nulla si è scritto dello scontento, come se non fosse una realtà con cui ci confrontiamo ogni giorno. Per comprendere da dove nasce e dove conduce, indagandone ragioni, forme e sbocchi, ho compiuto un viaggio nel malessere diffuso, nell’insoddisfazione che genera dipendenza e arricchisce la fabbrica dei desideri. Le radici dello scontento sono nello spirito occidentale, perennemente insoddisfatto, in preda a desideri illimitati; ma la pianta dello scontento fiorisce soprattutto in Italia e non da oggi.

Cerco di analizzare in che modo si manifesta e come si sviluppa lo scontento, quali sono gli errori e le responsabilità di quanti spingono a immaginare sempre nuovi altrove, ignorando la realtà che oggi però presenta il conto. Gli ambiti in cui si esprime lo scontento sono pubblici, interpersonali e privati. C’è uno scontento civile che ci tocca soprattutto come cittadini, utenti e consumatori. E c’è uno scontento interiore che discende da una vita alienata, che ha perso le sue ragioni e passioni di vita, in preda al cinismo e al nichilismo. Vaste sono poi le ricadute della scontentezza e gli ambiti in cui si manifesta: le città ridotte a non luoghi, abitati da folle di estranei, non solo perché migranti; la politica dove la maggioranza assoluta dei popoli esprime nel voto e nel non voto la sua scontentezza, e la fortuna del potere è che il dissenso difficilmente converge ma si disperde in vari rivoli, più il buco nero dell’astensione (dove però allignano in gran parte i rassegnati e gli incontentabili).

Siamo entrati nella società del malcontento e non s’intravede via d’uscita. Una massa di scontenti affolla la vita pubblica e privata, e non trova sbocchi politici o sociali; così rimane sospeso e galleggiante nella nostra società un malumore minaccioso. Le emergenze degli ultimi anni, dalla pandemia alla guerra, dalla crisi economica al rischio ambientale, tramutandosi in restrizioni, rincari, sacrifici e rinunce, hanno ulteriormente allargato il campo allo scontento, che già serpeggiava come effetto collaterale della globalizzazione.

Il malcontento di massa è cresciuto ben oltre i confini della politica o delle rivendicazioni sindacali, coinvolgendo cittadini fino a ieri refrattari a ogni protesta e ora attivi sui social nel riprendere e propagare testi, accuse e giudizi. Nella società fondata sull’inclusione universale cresce il numero degli esclusi, o che si percepiscono tali, e più si scava il fossato di diffidenza e incomunicabilità tra il mondo di sopra e il mondo di sotto, dove vivono i popoli e la gente comune.

Ne La Cappa affrontavamo un sistema di potere e di dominio che opprime i popoli e deprime i soggetti. Negli Scontenti protagonisti diventano gli stessi cittadini che difficilmente trovano uno sbocco soddisfacente alle loro frustrazioni. Si tratta di capire di chi è figlia, di chi è madre la scontentezza; e come coltivarla e mettere a frutto le energie che suscita. Lo scontento è una fiamma che ci arde dentro, brucia e illumina, ci divora e ci fa vivi. Può corrodere la nostra vita ma può anche essere una spinta a rigenerarla, a respingere le soffocanti egemonie e i dettami che ci vengono imposti, e a riaprire i conti con il futuro.

Il mondo regge su chi si accontenta e porta sulle spalle il peso degli oneri sociali; ma cammina sulle gambe degli scontenti. Sono loro che muovono la storia, quando passano da uno stato d’indignazione permanente che sfocia nell’accidia a uno stato operoso in cui mettere a frutto la critica fino a ricavarne una proposta alternativa.

(Il Borghese, novembre 2022)