L’ultimo re Borbone metafora del declino dei sovrani europei

L’ultimo re Borbone metafora del declino dei sovrani europei

La sua personalità misconosciuta e la sua Odissea analizzate nel libro di Gigi Di Fiore oggi all’Università di  Salerno
SILVIA SONETTI

FrancIIHa l’aspetto di un romanzo e la scorrevolezza di un racconto l’ultimo libro di Gigi Di Fiore, “L’esilio del re Borbone nell’Italia dei Savoia”, edito da Mondadori e distribuito nella sua prima edizione come inserto alla rivista Focus Storia.

Protagonista è chiaramente Francesco II che in verità, nella sua vita, fu più esule che re, e mai nei territori annessi al Regno di Sardegna, ma prima nello Stato Pontificio e poi in giro per l’Europa.

Un personaggio poco studiato, schiacciato dalla congiuntura, passato alla storia come l’ultimo discendente di una dinastia, quella Borbonica, tra le più importanti di Europa, ma che in realtà ne resse la corona soltanto per una parentesi davvero breve. Fino ai 23 anni, Francesco, fu principe ereditario; dal maggio 1859, quando morì Ferdinando II, per 21 mesi, fino al febbraio 1861, fu sovrano del Regno delle Due Sicilie, conservando il titolo fino allo scioglimento del governo in esilio dopo la Terza Guerra di Indipendenza nel 1866. Da quel momento, fino alla morte, sopraggiunta per le complicanze di un diabete ad Arco di Trento nel 1884, visse da privato cittadino tra Francia e Germania sotto il nome di “Duca di Castro”.

È una storia ben scritta, che l’autore sceglie di far partire dall’esilio Romano, in cui il lettore scorre con piacere tra le pagine, cercando invano il lieto fine. È l’Odissea di un giovane inesperto, in balia degli eventi, dei cattivi consigli, di una famiglia ostile e di un complotto politico, che cerca affannosamente risposte efficaci alle grandi sfide con cui è costretto a fare i conti.

Dopo la fine dell’assedio di Gaeta, il re con quello che rimaneva dell’apparato ancora fedele alla dinastia (militari, funzionari, ministri, ambasciatori) riparò a Roma, protetto da quel velo apparentemente ancora invulnerabile che copriva i territori, sempre più risicati, sotto il dominio pontificio. Roma e il Palazzo Farnese erano luoghi sicuri, offerti da un Papa in debito di ospitalità con i Borbone dal 1849. Da qui il governo in esilio tentò, principalmente sul piano diplomatico, un recupero ai tempi supplementari di un sistema e di una forma di governo sconfessata dalla maggioranza degli ex sudditi, sconfitta militarmente da Garibaldi e dall’esercito Piemontese, e superata dalla storia. Il Regno delle Due Sicilie, con il suo isolamento internazionale e il netto rifiuto a tenere in vita gli organi costituzionali, a partire dal ’48, aveva mancato l’aggancio con le idee trainanti del secolo: in due parole nazione e costituzione, in termini concreti libertà, diritti, rappresentanza. L’alleanza con l’Austria, che fu l’ultima delle grandi potenze a riconoscere il Regno d’Italia, era oramai fonte più di imbarazzo che di vantaggio, per quanto subito dopo i plebisciti, era alle cancellerie dei vecchi alleati che i ministri bussarono per sondare la possibilità di una nuova restaurazione nella penisola.

Il re, cacciato via da una Sicilia che non aveva mai visto di persona, e che invece visitò nel 1862 Vittorio Emanuele, dovette fare i conti prima con la guerra e, dopo l’assedio, con il clima tipico del dopoguerra. File di nobili arrivisti, militari in cerca di riscatto, ex amministratori desiderosi di onorificenze, vecchi politici ancora speranzosi di uno spazio di potere, affollarono nei primi tempi quella Napoli in miniatura che si era trasferita a pochi chilometri dal confine con il Regno.

Nelle sue stanze, il re, confuso sul da farsi, immerso in un clima familiare pesante, imbarazzato dai numerosi scandali che interessavano la corte, a partire dal 1862, affidò ad un diario le sue confidenze e approfittava del tempo progressivamente sempre meno occupato da impegni formali, per leggere, scrivere, riflettere. Oltre quelle mura, l’Italia si muoveva in fretta e Francesco, sempre più da spettatore, assisteva alle trasformazioni della sua Patria e dei territori a lui familiari da cui non si era mai allontanato.

L’ex sovrano delle Due Sicilie affidò alle penne di intellettuali e scrittori le sue rivendicazioni politiche, demandò principalmente ai ministri e agli ambasciatori la cura della via diplomatica, e ai briganti la conduzione (sempre ufficialmente sconfessata) della guerriglia legittimista sui territori.

Di contro sempre più imponente cresceva il neo stato italiano, che aveva dalla sua politici scaltri ed esperti, militari di mestiere, osservatori arguti, personaggi di alto spessore politico.

Sullo sfondo delle grandi trasformazioni che attraversarono il Mezzogiorno e l’Italia in questi anni cruciali, il ritratto di Francesco II rimane sostanzialmente fedele all’immagine che tutti gli riconoscono: giovane inesperto, tiepido, incapace di iniziative ardite e animato da un forte sentimento religioso. Dietro le sembianze del re spodestato, la cui permanenza nella penisola fino al 1870 rimase comunque questione scomoda per la politica internazionale, l’autore fa emergere il profilo dell’uomo, schiacciato dagli eventi a tutti i livelli. Un uomo incapace di essere marito e soddisfare i doveri coniugali che lo stringevano a una donna, Maria Sofia di Baviera, di tutt’altra indole, incapace di essere figlio di una matrigna che non l’aveva mai accettato e riconosciuto, incapace di essere il maggiore di una schiera fratelli irrequieti, smodati, pericolosamente invidiosi, in ogni caso mai integrati nella gerarchia consolidata che li condannava ad essere secondi.

Alla ben scritta ricostruzione biografica, che non manca di puntuali e precisi rimandi alle congiunture e al contesto politico, il volume accosta un merito importante. Su un piano generale risponde infatti a una questione aperta per la storia dell’Europa tra Antico Regime e rivoluzione: la collocazione, cioè, nel nuovo panorama geopolitico, dei vecchi sovrani spodestati nei nuovi o rinnovati stati-nazione. Il caso dei Borboni di Napoli da questo punto di vista è particolarmente interessante perché in esso la dissoluzione del vecchio regno e l’estinzione della dinastia si intrecciarono senza soluzione di continuità, generando sui territori complesse trasformazioni politiche e sociali di cui la
guerra del brigantaggio fu l’espressione più evidente. Il libro si presta quindi a un dibattito ampio, che si terrà oggi, con l’autore, insieme con Marco Meriggi, Carmine Pinto, Emilio Gin, alle 15.00 nella Biblioteca di storia dell’arte dell’Università di Salerno.

©RIPRODUZIONE RISERVATA
gigiGigi Di Fiore
Luigi Di Fiore detto Gigi (Napoli, 2 gennaio 1960) è un giornalista e saggista napoletano. Oltre all’attività giornalistica, si dedica alla ricerca storica, soprattutto su due argomenti: la criminalità organizzata e la storia del Risorgimento italiano e del Mezzogiorno in generale, con attenzione alla fine del regno delle Due Sicilie e al brigantaggio post-unitario. Numerosissimi i premi ed i riconoscimenti per le opere che su questi temi ha pubblicato. Tra le tante opere ricordiamo: “Potere camorrista” (Age, Napoli); “Io Pasquale Galasso” (Tullio Pironti, Napoli); “1861-Pontelandolfo e Casalduni un massacro dimenticato” (Grimaldi & C., Napoli). Poi, con la Utet: “I vinti del Risorgimento” (Torino, 2004) e “La camorra e le sue storie” (Torino, 2005). Nel 2007, per Rizzoli, “Controstoria dell’unità d’Italia”, “L’impero” nel 2008, “Gli ultimi giorni di Gaeta” nel 2010 e Controstoria della Liberazione nel 2012.
Le sue ultime fatiche sono “La Nazione napoletana. Controstorie borboniche e identità sudista” (UTET), e, ultimissima, “L’esilio del re Borbone nell’Italia dei Savoia” (Focus) di cui parliamo nel post