L’ORA DELLE VERITA’
Il tempo per dichiarare ormai obsoleta la retorica che vuole il Risorgimento fatto solo di eroi di martiri, e di bene opposto al male, dove il bene è l’unità ad ogni costo ed il male è il sud, è ormai arrivato! In questa storia dove manca ancora una profonda opera di revisione storiografica, dove oltre 160 anni di storiografia ortodossa e prona alla politica (dal 1861 alla caduta del fascismo) hanno creato un vuoto di conoscenza che negli ultimi decenni si era in dovere di riempire con studi seri ed approfonditi.
Il Regno delle Due Sicilie “non era il paradiso, ma nemmeno l’inferno d’Europa” come volle far credere la propaganda britannica e poi la storiografia di stato. Quanto al numero dei poveri, molti sono i luoghi comuni: nelle province napoletane ed in Sicilia i poveri erano l’1,4%, ma erano l’1,6% in Lombardia e il 2,11% in Romagna. I vituperati Borbone, trovarono il Sud in condizioni definite tragiche, nel 1734. Ma durante il loro regno apportarono novità importanti, anche se gli equilibri sociali non furono sconvolti. Ma se è per questo, neanche dopo Garibaldi. L’industria si era sviluppata con ritmi altrove impensabili, impiegando fino a 1.600.000 addetti contro il milione e poco più del resto d’Italia”. Certamente vi era una stasi sociale nel Regno delle Due Sicilie, che impedisce di parlarne come di un regno di pura giustizia sociale, ma la disoccupazione e l’emigrazione erano pressochè assenti e nei numerosi ospedali e ospizi prestavano servizio ben 9000 medici. Ma dopo cosa successe? Garibaldi aveva promesso le terre ai contadini ma “il nuovo corso, come il vecchio, non poteva permettere che fossero toccati gli interessi dei latifondisti. Del resto, è ormai documentato l’aiuto decisivo che i Mille ricevettero sia dalla massoneria sia dalla mafia, che garantì appoggi logistici, rifornimenti continui e controllo capillare del territorio, oltre alle braccia armate dei picciotti”. Il malgoverno di quelle terre ignote, dopo la guerra al Brigantaggio, fece poi il resto. Il meridionale era dipinto ora come “canaglia” ora come “selvaggio e beduino”. “Razza volubile e corrotta”. E così, il generale Cialdini, dopo i primi mesi, fornì a Torino i risultati della sua azione, soltanto nel Napoletano: 8968 fucilati, tra i quali 64 preti e 22 frati; 10604 feriti; 7112 prigionieri; 918 case e 6 paesi interamente bruciati […]”. Si può parlare quindi di “episodi di sterminio di massa”. Se si legge bene la storia della Guardia Nazionale, si colgono i veri risvolti sociali del Brigantaggio: il popolo ne era escluso: le truppe della Guardia erano guidate in molti casi da proprietari terrieri. Di fronte a tutto ciò, un moderato lombardo, Antonio Mosca, assai lucidamente, aveva fornito una versione inaccettabile e per questo taciuta all’opinione pubblica.
Vi si sosteneva che il brigantaggio aveva un carattere sociale, che era una reazione di classe ai soprusi della borghesia terriera, la quale usava l’annessione a proprio vantaggio […]. Una simile interpretazione, per quanto corretta, finiva per attribuire le responsabilità a molti deputati meridionali, per lo più borghesi: accusandoli, in modo neanche troppo velato, di avere usurpato le terre demaniali destinate ai contadini. Prevalse, ovviamente, tutt’altra lettura del fenomeno, estirpato manu militari per proteggere gli equilibri di sempre. La leva quinquennale, le tasse indirette, la propaganda della religione, furono il seguito di questa fondazione, ma successe anche che nell’amministrazione locale si inserirono sempre più spesso esponenti della malavita: mafia, camorra e ‘ndrangheta nascono e proliferano in questo brodo di coltura di miseria patologica […]. E la fondazione del divario tra Nord e Sud: Dal 1862 al 1897 lo Stato aveva speso 458 milioni, la maggior parte dei quali provenienti dalle casse del Sud, per bonificare le paludi della Penisola. Ebbene, furono spesi 455 milioni al Centro-Nord e solo 3 al Sud”. Dopo l’unità d’Italia attraverso un sistema di trucchi finanziari e irregolarità contabili, in un solo anno il governo piemontese “prelevò” 80 milioni di lire spendendone per il Meridione solo pochi spiccioli.
E che dire di quegli ufficiali taliani che giunsero al Sud come “esploratori in terra popolata da una razza diversa, percepita come inferiore”. Che, in forza della terribile Legge Pica (1863), si avvalsero dello “stato d’assedio” per reprimere, chiudendo entrambi gli occhi “su arbitrii, abusi, crimini, massacri”.
Non ha bisogno d’alcuna dimostrazione l’affermazione che vuole lo Stato unitario italiano, fondato nel 1861 per volontà inglese e con le armi francesi, un completo fallimento quanto alla sua parte meridionale. Non si tratta di un’opinione, ma di un’evidenza. Tutti, italiani o stranieri, meridionali o settentrionali, studiosi e gente comune, non debbono fare altro che prenderne atto. Lo stesso Stato ne dà atto da sempre, fin dalla famosa relazione Massari sul brigantaggio del 1863. Il fatto, poi, che, a partire dal miracolo economico italiano (1958/1965 circa), il paese tosco-padano abbia raggiunto una ragguardevole condizione di sviluppo non comporta, né per il senso comune né in termini di teoria dello sviluppo che, prima o poi, tale condizione si estenda automaticamente al Paese napoletano, alla Sicilia e alla Sardegna. Negli anni settanta/ottanta, alcuni storici e più di un economista si presero la briga di studiare le reazioni che il meridione aveva registrato a ogni azione prodotta nel settentrione, e viceversa. Quanta parte del merito del miracolo economico padano spettava alla spesa pubblica effettuata sotto la voce Cassa per il Mezzogiorno? I pesi e i costi, che il paese meridionale aveva sopportato e sopportava, come interfaccia pagante dello sviluppo toscopadano – sostenevano costoro – andavano controbilanciati a dir poco con provvedimenti del tipo ammortizzatori sociali. Sin dal tempo in cui Francesco Saverio Nitti predispose e impose una forma d’intervento speciale per Napoli (1904), la classe politica meridionale annacqua il vino. Il Sud italiano, o per meglio dire, due paesi che da ben 1400 anni presentano un’identità culturale ben precisa, la Sicilia e il Napoletano, non hanno bisogno d’alcun intervento speciale. Basterebbe che loro (gli eroi del penoso raggiro che ha mortificato il nome d’Italia) se ne andassero e il Sud risorgimenterebbe dalla sera alla mattina. Ancor prima che venisse proclamata l’unità nel marzo del 1861, la truffa nazionale era già evidente. Ad attestarlo ci sono dei fatti precisi. Ne ricordiamo alcuni soltanto.
1. Mentre il governo di Torino stava pensando a come chiudere il regio Banco delle Due Sicilie, un gruppo di ricchi mercanti napoletani chiese a Cavour di essere autorizzato ad aprire una banca d’emissione con 100 milioni di capitale (cioè due volte più grossa della banca d’emissione di Genova e Torino). Cavour non autorizzò, e i patrioti ancora ci debbono spiegare il perché del diniego.
2. L’imposizione, anch’essa cavouriuana, della tariffa sarda alle ex Due Sicilie. Fu una misura talmente negativa che persino la storiografia più ligia all’unità la giudica causa principale del crollo alla radice dell’intero sistema industriale e manifatturiero del paese meridionale.
3. La decapitazione di Napoli e Palermo, città capitali, e la parificazione delle uniche metropoli italiane a Cuneo e a Vercelli: peggio di due eruzioni del Vesuvio e di quattro terremoti di Messina.
4. La risoluzione di combattere la rivolta nelle campagne napoletane con il ferro e con il fuoco, cioè allo stesso modo dei generali di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat.
5. La negazione degli stessi vantaggi di cui godeva Genova alla marina mercantile duosiciliana, dodicimila velieri e numerosi vapori, a cui precedentemente il governo borbonico assicurava benefici pari a quelli di cui godevano le marine d’Inghilterra e di Francia.
Incidentalmente, si ricorda che dopo queste misure la Casa di don Carlo Rothschild, che s’era impiantata a Napoli al tempo dell’occupazione austriaca, e che vi aveva sviluppato importanti attività creditizie, tagliò i ponti e si trasferì a Londra. Morto Cavour nel giugno dello stesso 1861, i suo successori e aventi causa moltiplicarono l’insultante opera di devastazione. I beni della Chiesa, costituenti non il valore attribuito di circa mezzo miliardo, ma un valore effettivo di oltre un miliardo e mezzo (in un tempo in cui il bilancio annuale dello stato italiano non toccava i 160 milioni), vennero praticamente regalati a una società di profittatori del regime, alla cui testa c’erano i vecchi sodali di Cavour Giuseppe Balduino, Pietro Bastogi e Carlo Bombrini. Fu lo scjalo. L’identico scjalo che la speculazione tosco-padana già aveva instaurato con le ferrovie meridionali e con il monopolio dei tabacchi, e che di lì a non molto prolungherà con le società di navigazione, con le acciaierie e la cantieristica navale. In tale turbinio di imbrogli, il governo torinese riuscì anche a chiudere l’officina di Pietrarsa che, nel 1863, il direttore del ministero dell’industria, il milanese ingegner Giuseppe Colombo (futuro fondatore della società elettrica Edison) giudicò essere l’unico impianto esistente in Italia atto a produrre materiale ferroviario. Riuscì anche a chiudere la fonderia della Ferdinandea e le officine meccaniche di Mongiana affermando che il loro esercizio era antieconomico. La cosa era tanto vera che, una ventina d’ anni dopo, il patrio governo le regalò al sedicente conte Breda, un mangione ancora non noto al tempo di Cavour, il quale le usò per fondare l’italica acciaieria di Terni, di cui l’impareggiabile patrio ammiraglio, Benedetto Brin, seppe fare un’elegante voragine di soldi pubblici. Ciò seguito dall’imparziale e finalmente democratico governo di Giolitti, questa volta, però, con i dollari che gli emigrati mandavano da New York. In verità, la spoliazione del visibile non fu il costo maggiore. Quest’ultimo si configurò nel corso degli anni e si realizzò con il drenaggio dell’argento meridionale, in cui era incorporato il capitale commerciale del paese duosiciliano e con l’indebitamento dei meridionali a futura memoria. Il meccanismo ha il sapore di una di quelle scaltrite truffe per cui vanno celebri le Maghe di Milano, e tuttavia rappresenta una delle autentiche patrie glorie. Fatta l’Italia, il Galantuomo, quello che voleva fare gli italiani senza neppure saperne la lingua, il figlio non primogenito di un povero macellaio fiorentino, che lo aveva ceduto per poche lire ai Savoia, prese a spendere cifre inaudite per comprare cannoni e corazzate. Qualche anno dopo, l’indebitamento pubblico superava i quattro miliardi e mezzo. Come se l’Italia di oggi non avesse due milioni di miliardi di debito pubblico, ma venti milioni di miliardi delle ex lire. Il capitalismo padano (o italiano, che dir si voglia) non è nato producendo, ma fregando lo stato. Il quale, peraltro, era nato proprio con la funzione esplicita d’arricchire Lor Signori attraverso delinquenti operazioni di finanza pubblica. Le cartelle del tesoro ( i Bot del tempo) erano la promessa di pagare cento lire alla scadenza, più un interesse annuo del 5%. Siccome la fiducia in uno stato, nato già pesantemente indebitato, era scarsa, le cartelle venivano collocate sul mercato con lo sconto: cinquanta lire invece che cento. A comprarle non erano tanto i privati quanto le banche private. Al prezzo di cinquanta lire, l’interesse annuo effettivo non era più del 5%, ma del 10%. Il guadagno era grosso, e non finiva lì. Per spiegare il marchingegno, è opportuno premettere che la moneta ufficiale era la lira d’oro o d’argento. Però, in circolazione, d’oro e d’argento c’era ormai ben poco. Solo i duosiciliani opponevano una resistenza tardiva allo scippo dei loro ducati d’argento, ovviamente di detestato conio borbonico. La circolazione effettiva era costituita da banconote fiduciarie emesse dalla Banca nazionale – un’istituzione che volle rimanere privata – alla quale nel 1866 il governo (anzi il patriota napoletano professor Antonio Scialoja, ministro delle finanze in Torino) aveva accordato il corso forzoso, cioè la facoltà (per la Banca Nazionale) di non convertire in lire metalliche i suoi biglietti. Biglietti che peraltro neanche i padani volevano, tant’è che, sulla piazza di Milano, per avere 100 lire oro bisogna dare 125 in biglietti della Nazionale. Questa patriottica istituzione (la Banca Nazionale), pupilla degli occhi del Conte, padre della patria, era l’unica a sapere come sarebbe finita. Più carta emetteva, più ricca diveniva. Cosicché faceva di tutto per aiutare lo stato a indebitarsi. Lo faceva in questo modo: anticipava 100 lire in biglietti a chi le lasciava in deposito una cartella del debito pubblico, che in effetti ne valeva solo cinquanta. Chi aveva ottenuto le cento lire, di cartelle ne comprava due (lire 50 ciascuna) e le riportava in Banca per ottenere 200 lire in prestito. Le quali 200 lire, spese nuovamente, acquistavano quattro cartelle. La magia continuava: otto, sedici, trentadue … xn. Avendo speso 50 lire, al quinto giro si avevano già 800 lire di credito verso lo stato, più 40 lire annue d’interesse. Insomma, una catena di Sant’Antonio in piena regola. Alle spalle del contribuente. Ad arricchire, anzi a diventare i veri padroni dello stato nazionale italiano, furono la Banca Nazionale e i suoi consorti padani.
Ovviamente furono gli italiani a pagare la vertiginosa cifra ascendente, sul finire del secolo, a ben 13 miliardi in conto capitale e a poco meno di un miliardo di interessi annui (al tempo in cui un pane costava trenta centesimi). Ma quali italiani? Quei poveri disgraziati che, come racconta Nitti, erano costretti a emigrare perché il peso delle tasse sabaude aveva tolto loro il pane di bocca. Francesco Saverio Nitti, che pure lo sapeva meglio di chiunque, non ci informa invece che con le loro rimesse in valuta, quei poveracci, oltre a pagare il debito pubblico, spingevano in su il cambio della lira, tanto da portarla a un apprezzamento del 5% sul franco francese. La qual cosa consentì ai signori Agnelli, Pirelli, Perrone, Falk e ad altri Loro Eccellentissimi Colleghi di procurasi macchine e impianti moderni in Inghilterra, Germania e Stati Uniti.
Il contributo del povero Sud alla formazione del capitalismo padano è stato notevolmente più alto che quello del ricco Nord. Il tutto in cambio di calci dove il sol non luce.
Pasquale Peluso