Quel musicologo cacciato dalla Scala

𝐐𝐮𝐞𝐥 𝐦𝐮𝐬𝐢𝐜𝐨𝐥𝐨𝐠𝐨 𝐜𝐚𝐜𝐜𝐢𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐒𝐜𝐚𝐥𝐚
Ieri il Teatro San Carlo di Napoli ha onore con un concerto a un grande musicologo e scrittore, Paolo Isotta, scomparso lo scorso anno.

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Quel musicologo cacciato dalla Scala

Ieri il Teatro San Carlo di Napoli ha reso onore con un concerto a un grande musicologo e scrittore, Paolo Isotta, scomparso lo scorso anno. Il Sovrantendente del San Carlo, Stéphane Lissner è lo stesso che vietò sette anni fa a Isotta di metter più piede alla Scala di Milano per una fatwa infame, in seguito a una sua critica severa; un’interdizione che fece soffrire Paolino, all’epoca critico musicale del Corriere della sera (da cui fu in seguito “esodato”). Sarebbe bello che anche La Scala dedicasse un omaggio riparatorio al critico musicale che per 35 anni seguì in teatro gli eventi musicali per il principale quotidiano italiano. La serata al San Carlo nasce da un’iniziativa di Amedeo Laboccetta, suo amico personale, che ha anche pubblicato un ricco volume di scritti in onore di Isotta – Vita, estro e miracoli in 22 testimonianze (ed. Controcorrente, il titolo è colpa mia), tra cui Bassolino e Buttafuoco, Dell’Utri e Travaglio, Feltri e Sangiuliano, Malgieri e Solinas, Farina, Sgarbi e il sottoscritto.

Con Paolo Isotta ci conoscevamo poco, ma da lunghissimo tempo. Ci volevamo bene, senza mai frequentarci o essere amici. Non leggevo quasi mai i suoi scritti, e lui probabilmente non leggeva i miei, nonostante le sue dediche affettuose e ammirate. Non era malevolenza o poca stima, mai venne meno la reciproca benevolenza e considerazione. Ma i nostri ambiti d’interesse erano diversi, benché poi ci fossero terre di confine in comune, ideali e stili di pensiero. E la passione comune per Totò, a cui Paolo dedicò il suo ultimo libro. So poco e niente del suo universo musicale, e anche lui si mostrava lontano dai territori a me più famigliari. Non volevo perciò addentrarmi in una selva per me oscura e soprattutto scriverne da incompetente o solo da amico compiacente.

Se dovessi figurarlo in una caricatura lo disegnerei come un elefantino in tutù, in cui l’apparente goffaggine del suo fisico di piccolo pachiderma era riscattata dalla grazie lieve del suo danzare tra musiche e saperi vasti e raffinati. Così me lo ricordo, Paolino, come un elefantino vestito di bianco. Del resto l’elefante diventò il protagonista del titolo del suo libro più fortunato, uno di quei libri-vita in cui scorre tutto l’universo delle tue conoscenze, dei tuoi incontri, dei tuoi affetti e delle tue allergie. Un gran bel libro che solo ora, risfogliandolo, ho scoperto di avere letto davvero, viste le numerose mie sottolineature e qualche noticina in margine. Un libro amabile per le sue digressioni, le sue note di passaggio, incidentali, i suoi ricordi infantili e famigliari, i sapori e gli odori che effondeva. Mi piaceva l’intarsio più che la trama generale: era nelle sue pieghe che si nascondevano i tesori più intriganti, più che nel viaggio musicale.

Un suo denigratore, lo raccontò lui stesso con ironico distacco, definì La virtù dell’elefante “un’immensa cacata” e si rifiutò di pubblicarlo; il detrattore-editore ci prese per metà, perché immensa quell’opera era davvero; un gran bazar di vita, d’arte e di cultura, di figure, figuri e figurine, macchiette e parenti, un testo, a volte barocco ma mai falso o affettato. L’elefante citato da Isotta non era poi una bestia della giungla ma un’opera d’arte, si riferiva all’elefante del Bernini di fronte a Santa Maria della Minerva, a Roma. E l’iscrizione sotto l’elefante spiega e nobilita la figurazione di Paolo come un elefantino: “occorre una virtù robusta per reggere cotanta mole di sapere”.

Mi colpì del suo libro e poi del suo seguito, Altri canti di Marte, la ricchezza sovrabbondante di nomi ed episodi narrati, che debordano da quelle pagine e mostrano di essere scritte davvero con la memoria di un elefante. Sorprendevano certe sue espressioni gustose, che ricordavo usate in linguaggi aviti e gerghi dialettali, modi di dire e di pensare del nostro sud, sepolti nella memoria o che pensavo circoscritti al mio paese o noti solo a rari superstiti.

Isotta è stato pure un dannunziano napoletano sui generis, un Mario Praz della musica, un esteta pagano che passeggia tra le rovine e i vicoli di Napoli, tra il vecchio e l’antico, più qualche strepito di criatura.

Ci sono napoletani che ti fanno amare Napoli sopra ogni altra città, te la fanno sentire ancora come la tua capitale e ti fanno dimenticare i napoletani molesti e imbroglioni, più qualche insopportabile trombone che fa di professione il napoletano. Isotta è uno di quei rari e grandi napoletani; ne ho conosciuti una decina tra viventi e morti che meritano quel titolo. Alcuni, non a caso, erano suoi amici, come Raffaele La Capria e Ruggero Guarini.

Di Isotta mi intrigavano tante cose ma una più di tutte: la sua religione pagana e napoletana, sublime e superstiziosa, una religione dei santi più che di Dio, che antepone San Gennaro a Gesù Cristo, a cui Isotta chiedeva d’intercedere presso il Santo napoletano; e poi una processione di santi soprattutto meridionali, da Santa Patrizia, a cui si scioglie il sangue come a San Gennaro, fino a Padre Pio (abbiamo entrambi stroncato l’hangar edificato da Renzo Piano a San Giovanni Rotondo, dedicato al Santo). La protettrice letteraria invocata da Paolino era la Madonna del Carmine che ha tanti devoti a Napoli e al sud. Da noi era accompagnata però da una fama minacciosa: non fate il bagno al mare il 16 luglio che è la sua festa, diceva la dissennata saggezza popolare, perché può esservi fatale. Ho proposto di far leggere i suoi brani dedicati a San Gennaro. Una volta, raccontava Paolino, San Gennaro gli salvò la vita da ragazzo in un incidente, avvolgendolo (lo aveva accoumogliato, diceva lui) nel suo manto. Che san Gennaro l’accompagni ancora col suo manto e metta una buona parola per lui, nonostante il brusco e disgraziato passaggio all’altra riva.

La Verità – 26 ottobre 2022