La cappa plumbea che spaventa la destra

La cappa plumbea che spaventa la destra
Marcello Veneziani ci parla del suo ultimo pamphlet, dedicato ai presunti eccessi del politically correct, della cancel culture e così via
di Lorenzo Erroi    5 ott 2022
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“Ma in che mondo viviamo?” Se lo chiede nel recente ‘La Cappa: per una critica del presente’ (Marsilio) il giornalista e intellettuale conservatore Marcello Veneziani, che lunedì era a Lugano per un dibattito con l’avvocato Tito Tettamanti. La risposta di Veneziani è destinata a sollecitare reazioni opposte e inconciliabili, com’è tipico d’ogni pamphlet: un sollevato “ecco, non sono solo io a pensare certe cose!” o al contrario uno sdegnato – e autocompiaciuto – “ma guarda tu ‘sto trombone”. Siccome le cose, come sempre, sono un po’ più complesse, ne abbiamo parlato direttamente con l’autore in occasione della sua visita in città.

La Cappa fa riferimento al plumbeo cappuccio che nell’Inferno dantesco indossano gli ipocriti. Ma a cosa allude fuor di metafora?

Si riferisce al clima opprimente che caratterizza la nostra epoca, dato da un insieme di fattori diversi: la politica sanitaria pandemica, il modo distorto di vivere la natura e l’ambiente, la risposta alla differenza tra i sessi. Accanto a questi elementi di carattere sociale mi soffermo anche sull’egemonia del politically correct, sulla cancellazione della storia e della cultura. Cerco di fornire una lettura sintetica di questi fattori che, per quanto indipendenti l’uno dall’altro, a mio avviso convergono nell’impedirci il pensiero della differenza e nell’inibire la libertà d’opinione. Ecco allora la Cappa, intesa come cappuccio, ma anche come coltre ‘atmosferica’.

In effetti la sua Cappa si compone di diverse pezze: cuce il “femminismo fanatico” con “la psicosi del #MeToo”, il “comitato di salute pubblica” che avrebbe imposto i lockdown con le proteste antirazziste e per il clima, oltre alla cancel culture che addirittura, nella sua lettura, arriva a comprendere sotto lo stesso ombrello concettuale la distruzione delle statue di Buddha da parte dei Talebani, la guerra americana in Iraq, il comunismo e il politicamente corretto. Come si riesce a tenere tutto insieme senza passare per complottisti?

Non si tratta di complottismo per la semplice ragione che parliamo di un intersecarsi di fattori autonomi di diversa origine. Non c’è un grande vecchio e neppure un disegno comune, ma solo una convergenza, tutto sommato a posteriori, in un canone unico. Di ciascun aspetto cerco di individuare il contributo a questo canone: ad esempio, della questione sanitaria non mi interessa un giudizio ‘tecnico’ su specifiche scelte quali l’obbligo vaccinale e il green pass, quanto piuttosto il segno che hanno lasciato nel fare avanzare un clima di controllo, di conformismo, di sorveglianza.

Ma quel conformismo, quella repressione del “pensiero della differenza” non era ben più presente nelle epoche precedenti, in particolare per le minoranze? Pensiamo a un afroamericano o a un omosessuale negli anni Cinquanta.

Non nego affatto che in passato vi fossero altre forme di conformismo, ma qui mi occupo del presente, dei paradigmi e protocolli intoccabili che dettano l’allineamento culturale di oggi. Un allineamento che si estende dalla cultura più alta alla pubblicità, agli influencer, al lessico quotidiano, con un canone ideologico che fa perdere di vista la varietà del reale, annullando tutte le differenze culturali, naturali e storiche presenti nella nostra società.

Lei denuncia con veemenza un presente in cui “si cancellano memorie, tradizioni, principi e valori”. Ne ha anche per Papa Bergoglio e per la sua Chiesa, che trasformerebbe il Figlio in “pescatore non di anime, ma di barconi”. Nel mondo che lei pare rimpiangere, dopo un attacco del genere a un Pontefice l’avrebbero già condannata per bestemmia. O no?

Beh, innanzitutto, soprattutto negli ultimi mesi, il Papa si è dimostrato perlomeno aperto su vari orizzonti. Io critico semmai il messaggio del suo pontificato recepito in prevalenza, dunque divenuto preponderante, per cui quel che più conta è l’accoglienza, la fratellanza, in particolare rispetto ai migranti. Così si perdono non solo le tradizioni, ma anche l’idea stessa di una relazione con Dio e col sacro. Tutto pare ridotto a una dimensione di riscatto sociale. Questo impoverisce il messaggio evangelico e fa perdere una figura fondamentale: il Padre, quel punto di riferimento più alto che caratterizza ogni religione e rapporto metafisico. La fratellanza senza il riconoscimento del padre degenera in fratricidio.

Nel suo pamphlet riecheggia una lunga tradizione ‘declinista’: il‘Tramonto dell’Occidente’ di Oswald Spengler, l’‘Impolitico’di Thomas Mann che opponeva la pugnace Kultur all’efebica Zivilisation, il Martin Heidegger in fissa contro la tecnica, i vagheggiamenti antimoderni di Pier Paolo Pasolini. A guardar bene si potrebbe tornare ancora più indietro, almeno fino agli ‘o tempora, o mores’ ciceroniani e a certe intemerate di Giovenale. Ma se dopo duemila anni di declino siamo ancora qui a parlarne, cosa c’è di così tragico?

Nella mia riflessione c’è una parte di critica permanente che attiene a un grande filone critico, a una concezione condivisa della tradizione come valore da salvaguardare. C’è però anche uno sguardo sulla realtà attuale che riguarda lo specifico della nostra epoca. Quando parliamo di tramonto dell’Occidente oggi non possiamo rifugiarci in Spengler, ma dobbiamo guardare a quanto accaduto negli ultimi decenni: l’occidentalizzazione del mondo e di conseguenza una globalizzazione nella quale l’Occidente stesso, sconfinando, tramonta esaurendo la sua ragion d’essere. Tanto che ora ci sentiamo in dovere di assumere sempre il punto di vista dell’altro da noi, finendo per provare vergogna per tutta la tradizione storica, politica, civile, culturale europea.

A proposito di Europa, non manca nella ‘Cappa’ la critica agli “eurocrati”, e più in generale all’egemonia di un “establishment” globale in combutta con la “tecno-finanza”. Se sono così potenti, però, perché in Italia ha stravinto Giorgia Meloni, erede di quel “Dio patria famiglia” che fa inorridire Bruxelles? E perché, ormai da anni, vince quasi sempre un populismo arrembante, descamisado e tutt’altro che cosmopolita?

Quel che stiamo vivendo è appunto il travaglio, la tensione tra gli ordini sovrastanti – le classi dirigenti, in certi casi le consorterie, che si ispirano alla Cappa – e il sentire comune e popolare, il senso della realtà, il legame naturale con le tradizioni, l’indole dei popoli. Il voto che si è espresso in Italia, come altrove in Europa, è la dimostrazione di questa frattura tra la narrazione ufficiale, dominante, e tale sentire comune e prevalente. Lo stesso fenomeno si è verificato per i funerali della regina Elisabetta, spontanea manifestazione popolare di un legame tradizionale nel segno di ‘Dio, patria, famiglia’ che non può essere ridotto a un retaggio fascista: rappresenta piuttosto il legame con la propria civiltà, la religione, la famiglia – non solo la Famiglia reale – come istituzione, con la patria come riferimento comunitario. Principi antitetici alla globalizzazione, alla civilizzazione senza civiltà e al dominio della tecnocrazia e della finanza.

Premia il legame col popolo, insomma. Però mi viene in mente una scena della ‘Cripta dei cappuccini’ di Joseph Roth, quella in cui il povero protagonista vede spalancarsi la porta della bettola nella quale si è rifugiato e appare uno sgherro dell’austrofascismo, pronto a esclamare entusiasta: “Ora abbiamo un governo di popolo!” Non andò benissimo.

Ma i cosiddetti populismi sono variegati e quelli di derivazione fascista sono davvero pochi: il populismo va da Lula a un certo ecologismo, fino al grillismo. Io non rivendico certamente l’autogoverno dei popoli: la ritengo un’utopia perniciosa – peraltro più anarco-comunista che fascista o reazionaria –destinata a derive puramente retoriche o alla peggio dispotiche. Noto solo come i governi che voltano le spalle alla sensibilità popolare assumano già in una postura oppressiva.

Non tutti i populismi saranno d’ultradestra, però Fratelli d’Italia reca nel simbolo la fiamma tricolore che si erge dal sepolcro di Mussolini.

Io credo che Meloni abbia fatto un’importante scelta di tipo conservatore, di un conservatorismo più continentale che à la Thatcher: penso a de Gaulle, al modello renano di economia sociale di mercato… Il conservatorismo non può essere ridotto al fascismo, attualmente oggetto di un illusionismo macroscopico: si tratta di una categoria politica morta ottant’anni fa che però pensiamo sia ancora lì, minacciosa, ad aspettarci dietro l’angolo. Mentre il comunismo appare come archeologia, nonostante vi sia un regime come quello cinese. Nessun uomo di senno può crederci davvero.

Insomma: anche se si rifà a certi simboli, Meloni non è fascista. Ma siamo sicuri che lei lo sappia?

Io credo che molti simboli che noi attribuiamo al fascismo in realtà lo precedano, compreso ancora una volta quel “Dio, patria, famiglia” che prima della sua versione fascista era già echeggiato in svariate tradizioni e nella visione mazziniana e repubblicana. Non è corretto, insomma, ricondurre al ventennio mussoliniano e alla sua simbologia tutto quel che dice e fa Meloni, che per ragioni anagrafiche non ha vissuto neppure l’esperienza del neofascismo: ha militato in Alleanza Nazionale, che lo aveva ripudiato, e sarà entrata in contatto con qualche nostalgico in un momento in cui tale nostalgia era già perlopiù un fatto sentimentale, una forma di ritualismo quasi privato, politicamente impraticabile e privo di legami politici con la destra sociale e nazionale.

L’INCONTRO

Con Tito Tettamanti, testimone oculare

«Quando sono stato invitato da un geriatra e ho saputo che a moderare il dibattito ci sarebbe stato uno psichiatra, un po’ mi sono preoccupato». Tito Tettamanti apre scherzando il suo intervento al dibattito organizzato lunedì sera a Lugano da Paolo Pamini (per AreaLiberale) e Pio Eugenio Fontana (Associazione libertà e valori), moderato dal dottor Michele Mattia. «Poi però ho capito», aggiunge subito il «capitalista praticante e convinto»: da una parte «c’è Veneziani, l’intellettuale che analizza e ci sprona», e dall’altra «serviva quello che in linguaggio forense si chiama teste a conoscenza dei fatti. Avendo 92 anni, posso dirvi com’era questo mondo nell’immediato dopoguerra».

Tettamanti ha così ricordato «i giovani che facevano politica in quegli anni in Europa», un’età in cui «l’arricchimento non era considerato un atto delinquenziale come oggi», presto scompaginata da «una mutazione antropologica sconvolgente», una «decadenza» da imputare anche a una serie di ‘cattivi maestri’: la Scuola di Francoforte, che ha capito «che per cambiare il mondo come voleva bisognava minare quell’autorità che esiste almeno da Hammurabi»; il Sessantotto; i filosofi francesi Foucault e Derrida; postmarxisti come Mouffe e Laclau, che negli anni Ottanta «hanno compreso che la lotta di classe era persa e per cambiare il sistema occorreva rivolgersi ai discriminati», alle diverse minoranze insomma.

Presto avrebbero «conquistato l’egemonia del discorso. Ma noi borghesi, come ci siamo difesi?». Male, per come la vede Tettamanti: «In fondo molti di noi hanno pensato che essere un po’ più di sinistra permettesse di essere più attuali e moderni. Ecco allora che queste teorie si sono diffuse tra i radical chic, le classi cittadine, gli intellettuali di professione». Donde la Cappa, nella quale però «cominciano a vedersi due sfilacciature: quella del ceto medio che capisce che sta soffrendo» e «inizia a non seguire più quella sinistra snob», ma anche quella degli intellettuali che «iniziano a ribellarsi al politically correct». Staremo a vedere.

https://m.laregione.ch/culture/culture/1610656/quel-fa-famiglia-cappa-anni?fbclid=IwAR0KmfAZ0O0QNt9LZ9Vu5mAD5yxqa652cmC4BPEnrZ9VDpgQSG-AuNoAdQI

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