SALVEMINI CONTRO GIOLITTI, “MINISTRO DELLA MALAVITA”
di Michele Eugenio Di Carlo
Ad inizio Novecento, quando il Regno d’Italia entra nella fase storica del giolittismo, i termini del pensiero di Gaetano Salvemini sono già chiari e definiti, sintetizzabili in federalismo, liberismo economico, suffragio universale. Tre punti che costituiscono il fulcro di una battaglia civile, democratica, riformista, aspra e dura, diretta contro il più volte presidente del Consiglio Antonio Giolitti, uscito indenne dallo scandalo della Banca Romana durante la sua prima esperienza da Presidente e che aveva capitalizzato a suo vantaggio la sconfitta dell’autoritarismo liberale dell’ultimo decennio dell’Ottocento. Un decennio da cui le minoranze progressiste e democratiche erano uscite rafforzate, grazie a una battaglia politica contro il regime liberale e la monarchia sabauda.
Figura 1. Gaetano Salvemini
Nel contempo, Salvemini aveva reso insanabile la frattura con il meridionalismo conservatore di Villari, Franchetti e Sonnino, che non era andato oltre l’ottima impostazione teorica delle problematiche del Mezzogiorno, mentre la realtà politica aveva prodotto a fine Ottocento, a seguito delle politiche doganali del 1887, un divario economico e sociale tra le “Due Italie” allargato a dismisura e una serie infinita di conflitti sociali denunciati da Antonio De Viti De Marco[1], Ettore Ciccotti[2], Napoleone Colajanni[3], Francesco Saverio Nitti[4] e dallo stesso Salvemini[5] che incontrando, da giovane professore a Lodi nel 1898 il repubblicano antimonarchico Arcangelo Ghisleri[6], e collaborando alla sua rivista «La Educazione politica», aveva avuto modo di leggere i testi di Carlo Cattaneo, passando da una visione marxista a una mazziniana e iniziando ad occuparsi del Risorgimento incompiuto.
Tuttavia, dato il taglio netto che il meridionalismo democratico, popolare, socialista di Salvemini, ˗ persino rivoluzionario quando inteso ad abbattere la monarchia e il regime liberale anche con la violenza ˗, aveva dato ai conservatori che per prima avevano affrontato “la questione meridionale”, appaiono inimmaginabili i rapporti di stima, di amicizia, e persino di sincero affetto, tra Pasquale Villari e il suo allievo molfettese, che aveva usufruito all’Università di Firenze dei corsi del professore napoletano. Un rapporto che troviamo documentato anche nel recente testo dello storico Valentino Romano[7], pubblicato dalla Secop dell’editore Peppino Piacente e che lo scrivente ha recentemente recensito[8].
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, nuove forze politiche e nuovi gruppi sociali si erano posti all’attenzione per sostenere e rappresentare i ceti subalterni, le cui aspettative non erano mai state prese in seria considerazione dai partiti storici di destra e di sinistra, che avevano monopolizzato l’attività politica dei primi decenni del Regno d’Italia. Un decennio in cui Francesco Crispi, tornato al governo dopo le brevi parentesi di Antonio Starabba (1891-92) e di Antonio Giolitti (1892-1893), prima affrontava a mano armata le proteste popolari dei fasci siciliani e della Lunigiana, poi scioglieva le formazioni anarchiche, repubblicane e il Partito dei lavoratori italiani, mentre i suoi successori (Starabba e Pelloux) provavano a imporre definitivamente una legislazione liberticida che andava oltre il già troppo spesso sospeso Statuto Albertino, incontrando la ferma opposizione delle forze politiche dell’Estrema Sinistra (radicali, repubblicani, socialisti), che nelle elezioni del 1900 venivano premiate consolidando la propria forza[9]. Persino Antonio De Viti De Marco, in un articolo del 1898[10], spiegava che i conflitti sociali avevano trovato i governi di fine secolo colpevolmente disinteressati alle problematiche dei ceti bassi, repressi con azioni militari e persecuzioni. L’ampio movimento libertario e democratico antimonarchico, che si era mosso contro l’autoritarismo liberale e che aveva resistito anche alle repressioni e alle persecuzioni seguite ai moti del carovita del 1898 a Milano, non solo si era concretizzato con l’affermazione nelle elezioni del 1900 dell’Estrema Sinistra, ma aveva determinato indirettamente anche l’avvento del giolittismo, che costituiva una vera e propria svolta nell’ambito dell’amministrazione pubblica, dei poteri locali, dello stato sociale, del divario economico e infrastrutturale tra Nord e Sud.
Figura 2. Giovanni Giolitti
Giolitti sceglieva per recuperare le carenze del Mezzogiorno, e modernizzarlo, la via delle grandi opere pubbliche, incontrando il consenso di Nitti e di Colajanni, ma la ferma opposizione di Fortunato, De Viti De Marco e Salvemini, risolutamente orientati verso una svolta liberista antiprotezionista, un decentramento ammnistrativo e una riforma tributaria che alleggerisse il peso gravante sulle produzioni agricole del Mezzogiorno, laddove solo i latifondisti erano avvantaggiati da un dazio sul grano. Si veniva così a determinare una frattura nel movimento democratico antiliberale e, in particolare, nel Partito Socialista, dove la linea turatiana sembrava assecondare l’onda giolittiana dominante, mentre Salvemini cercava di creare le premesse per un meridionalismo rivoluzionario antisistema, congeniale poi alle tesi di Gramsci, Dorso e Fiore.
È questo il contesto in cui matura il contrasto aspro che porta Salvemini a scrivere il saggio Il ministro della mala vita[11], sostanzialmente un atto di accusa al governo di Giolitti per come si erano svolte le elezioni politiche del marzo 1909 nel Mezzogiorno e, in particolare a Gioia del Colle, laddove il candidato giolittiano Vito De Bellis si era avvalso della complicità della prefettura, delle forze dell’ordine, della malavita per terrorizzare e punire gli avversari politici, negando de facto la libertà di voto a quei pochi che avevano il diritto di recarsi alle urne in relazione alla legge elettorale del 1882[12], la quale consentiva il voto solo a chi sapeva leggere e scrivere. Atti delinquenziali che secondo Salvemini, testimone dei fatti di Gioia del Colle, erano possibili proprio perché non esisteva il suffragio universale ed era praticamente facile controllare i pochi che nel Mezzogiorno si potevano recare alle urne. Pochi, anche perché, secondo Salvemini, l’analfabetismo nel Mezzogiorno era molto più diffuso che nelle regioni del nord.
[1] Si veda G. C. JOCTEAU, La lotta politica e i conflitti sociali nell’Italia liberale, in La storia. L’età dell’imperialismo e la I guerra mondiale, vol. 12, Milano, Mondadori, 2007, pp. 304-321.
[1] A. DE VITI DE MARCO, Le recenti sommosse in Italia. Cause e riforme, «Giornale degli economisti», a. IX, giugno 1998, pp. 517-546.
[1] G. SALVEMINI, Il ministro della mala vita: notizie e documenti nelle elezioni giolittiane nell’Italia meridionale, Firenze, Edizioni della Voce, 1910
Secondo Ennio Corvaglia, curatore della recente edizione Palomar de Il ministro della mala vita[13], «Salvemini poteva essere apprezzato sia da chi, come lui, attribuiva un carattere progressivo al processo unitario (ma poco nazionale), sia da chi si poneva all’interno della critica revisionista di una mancata rivoluzione liberale, sia da chi – anche in nome delle ragioni di una questione meridionale – tracciava i limiti della rivoluzione borghese italiana»[14]. Diverso l’approccio a Salvemini da metà degli anni Settanta del Novecento, a causa di un paese profondamente cambiato nelle sue strutture economiche e sociali, mentre «in tempi recentissimi una versione di radicalismo d’impronta salveminiana è stata ripreso attraverso la rappresentazione di un “pensiero meridiano” che poco o nulla ha a che fare, per parafrasare un famoso titolo di Eugenio Azimonti, con il “mezzogiorno qual è”. Per non parlare di tutta quella letteratura, tra il giornalistico e il politico, la cui natura querula e questuante, così lontana dalla dignità salveminiana, non ha mai smesso di accompagnare ogni manifestazione “meridionalista”»[15].
Ritengo che il pensiero di Salvemini può costituire un patrimonio per capire il presente e che, sotto diversi aspetti, possa essere da guida, più che mai oggi nel mondo della finanza ultraliberista, per riconquistare diritti che stanno sfuggendo e salvaguardare beni comuni che stiamo perdendo. Se solo si rifletti sul fatto che, come nel periodo giolittiano, oggi la lotta politico-elettorale non è «fra conservatori e democratici, ma tra conservatori e conservatori»[16], che il trasformismo politico, tipico della tradizione italiana, è tuttora operante a tutela di interessi privilegiati, che l’attuale legge elettorale priva gli elettori del diritto di scelta dei candidati al Parlamento, che una riforma tributaria risulterebbe più che necessaria per tutelare i ceti medi a rischio di cadere nelle sacche già estese della povertà, che invece del federalismo le forze politiche preparano un’autonomia differenziata per gravare ancora più su regioni già povere di servizi e infrastrutture.
La rete culturale della Carta di Venosa è nata per occuparsi di queste problematiche e per spazzare il campo meridionalista da suggestioni sudiste e leghiste, lontane, appunto, dalla «dignità salveminiana».
[1] La legge elettorale del 1882, approvata dal IV governo Depretis, sostituiva quella del 1860 (Legge n. 4515 del 17 dicembre 1860), derivante dalla legislazione piemontese. Venne poi modificata nel 1891 e sostituita nel 1912, durante la IV esperienza di governo di Giolitti, da quella comunemente detta a suffragio universale. La legge elettorale del 1882 estendeva il suffragio ai maschi di almeno 21 anni che sapessero leggere e scrivere o che pagassero almeno 19,80 lire di imposte annue, portando gli elettori dal 2,2 % al 6.9%. La legge elettorale del 30 giugno 1912, proposta da Giolitti, allargava la base elettorale a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 30 anni. I cittadini maschi compiuti 21 anni avevano diritto al voto a condizione di aver ottenuto la licenza media, di aver svolto il servizio militare o di aver pagato imposte annue per almeno 19,80 lire. La massa degli elettori passava così dal 6,9% al 23,2%.
[1] G. SALVEMINI, Il ministro della malavita e altri scritti, a cura di Ennio Corvaglia, Bari, Nuova Palomar, 2020.
[1] Ivi, p. 65.
[1] Ivi, pp. 65-66.
[1] Ivi, p. 20.