LE DONNE DEL BRIGANTAGGIO | 15° episodio CHECCHINA FALBO, UN AFFETTO CONIUGALE…
di Valentino Romano (*)
La prima reazione, a scorrere le pagine dei mille e mille fascicoli processuali del “grande brigantaggio”, è talvolta quella di un sorriso. Ma è sorriso amaro, non divertito; semmai è sorriso complice, indulgente, comprensivo. Non di scherno, insomma ma di complice condivisione dell’umanità sottostante alla storia che si legge.È il caso di Francesca Falbo, Checchina, di Soveria.
Antonio Caligiuri è un contadino di Soveria: viene imprigionato per piccoli reati. Promette, in cambio della libertà, di far da guida alla truppa per scovare i briganti. E si porta a spasso per diversi giorni la squadriglia della Guardia Nazionale Mobile. Naturalmente di briganti Antonio non ne incoccia nemmeno uno, non sappiamo se per incapacità sua o per merito dei ricercati. Fatto sta che dopo qualche giorno Antonio scappa, si aggrega a una piccola formazione e si dà lui stesso alla macchia. Poi evidentemente si pente perché cerca di costituirsi ma, avendo saputo che nel frattempo sul suo capo è stata posta una taglia, desiste dal proposito.
La sua avventura brigantesca dura però pochi mesi perché nel settembre viene raggiunto dai soldati e ucciso in combattimento. In questo periodo lo ha seguito la moglie Checchina, che viene catturata.
Davanti al Tribunale di Guerra Checchina si difende come può. Ad esempio si dichiara brigantessa … part–time: “io non stava sempre con mio marito durante il tempo in cui era brigante e cioè dimorava parecchi giorni a casa e diversi altri col marito”.
Rispondeva cioè alle chiamate del marito, quando questi ne aveva “bisogno”. Ad avvertirla erano degli individui sconosciuti che il marito spediva come corrieri. E, per essere certa che non si trattasse di un tranello, aveva escogito dei segnali convenuti. Gli individui si presentavano a lei con un oggetto conosciuto e lei, rassicurata, li seguiva. Stava con il marito alcuni giorni e poi se ne tornava tranquillamente a casa.
Certo, ammette quasi con fierezza, se avesse potuto sarebbe rimasta sempre con lui e con i suoi compagni, ma questo non era possibile perché “non poteva resistere ai continui disagi della loro vita brigantesca”.
Ma nega decisamente di aver preso parte attiva nelle operazioni della banda: non sa nemmeno sparare, una volta sola i briganti “le fecero provare a sparare e ne soffrì una lacerazione al labbro inferiore”.
Gli inquirenti non le credono troppo, anche perché la “voce pubblica” nei suoi confronti non è troppo benevola: la si vuole tra l’altro” “donna di cattivo abito non isdegnando di tenere tresche amorose col facinoroso Cimino Luigi alias Cardiano”.
E poi ci sono le testimonianze precise di due conciapelli, ricattati nel giugno nella Sila della Chiazza, che la inchiodano. Dice infatti Fedele Di Vuono, : “tra i briganti eravi un brigante sbarbato che sembrava un giovanetto, che sospettai essere donna, ma che non vidi scapigliata od in altro modo… posteriormente appresi pubblicamente che il brigante sbarbato era effettivamente una donna e moglie del Colagiuri”.
Tutto ciò viene confermato dal suo compagno di disavventura. Successivamente i due rincarano la dose, sostenendo che Checchina era presente al momento del sequestro e che ne ebbe parte attiva, vestita da uomo e armata di un fucile ed un coltello.
Anche altri testimoni dichiarano di averla vista aggirarsi per la campagna armata di uno schioppo e i giudici gliene chiedono conto.
La risposta è disarmante. Altro che brigantessa, solo una moglie tenera ed affettuosa che corre in soccorso del marito: “è vero, di quando in quando durante i giorni in cui era con lui io portava il suo fucile ad una canna, o la pistola a due colpi… e lo portava perché egli soffrendo di dolori reumatici alle ginocchie se ne alleggeriva per resistere al cammino od alle fatiche… Fin qui i fatti, che pubblicai nel 2010 in “Nacquero contadini, morirono briganti”. Poco dopo, un mio caro amico, Franco Falbo, leggendoli, individuò nella donna una sua antenata. Ma il bello doveva ancora venire: andai da lui per presentare un mio libro e mi condusse da una sua anziana zia che, superate le prime inziali reticenze e senza che io le dicessi nulla, mi ripeté per filo e per segno ciò che io, desumendolo dai documenti, avevo pubblicato e che era custodito nella memoria popolare e familiare.
Credetemi, regalo migliore non avrei potuto ricevere! Come dire che i documenti, a saperli leggere, custodiscono sempre una verità. Basta metterci un pizzico di passione e di obiettività e …la verità, prima o poi, viene fuori. Anche attraverso un sorriso.
(*) Promotore Carta di Venosa