Cosa resta dell’uomo se non c’è campo

𝐂𝐨𝐬𝐚 𝐫𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐮𝐨𝐦𝐨 𝐬𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐜’𝐞̀ 𝐜𝐚𝐦𝐩𝐨
Ma come sopravvive l’umanità senza i telefonini? Non dico come viveva in passato né mi riferisco a quella minoranza di contemporanei che non usa il portatile.

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Cosa resta dell’uomo se non c’è campo

Ma come sopravvive l’umanità senza i telefonini? Non dico come viveva in passato né mi riferisco a quella minoranza di contemporanei che non usa il portatile. Parlo invece di chi vive all’ombra del suo iphone o affini e improvvisamente deve farne a meno. Ho fatto un involontario ma significativo esperimento collettivo imbarcandomi, come i viaggiatori d’altri tempi, in un bastimento che attraversava il Mar Tirreno per sbarcare poi in Sicilia, come Garibaldi e gli americani nell’ultima guerra mondiale.
E lì, nella lunga tratta, ho visto come diventano gli umani in sedici ore senza collegamento. Era un campione vario e rappresentativo d’umanità viaggiante – bambini, ragazzi, signore, adulti e vecchi – disarmati del loro cervello portatile, mutilati del loro cuore di supporto. Non c’erano scene di disperazione però s’intravedeva in molte facce, col passare delle ore, una sensazione di malinconia e di straniamento, come la privazione di un’attività cerebrale e digitale fondamentale. Sos, non c’è campo…Era un’umanità liberata ma frustrata, privata di una dotazione che conta ormai più dei diritti umani e della libertà di pensiero.
Passeggiando tra i ponti, i corridoi e le sale, ciascuno rielaborava il lutto a modo suo, ma grosso modo si potevano riconoscere cinque tipi di reazione. Il primo, che chiamerò proustiano, è il nostalgico del telefonino che viaggia lo stesso sul dispositivo disattivato, alla ricerca del messaggio perduto. Rivede immagini, whatsapp, finestre social e tutto il catalogo di ricordi telefonici con lo sguardo languido e commosso. Lui ricorda i bei tempi in cui la creatura viveva, squittava, trasmetteva icone e scene di vita. A noi, invece, ricorda le nonne che andavano nei cimiteri a piangere sulle tombe dei loro cari, o sfogliavano gli album fotografici per ritrovare la carezza del tempo andato, i volti e gli scorci di vita finiti nel buco nero del passato.
Il secondo tipo umano che chiamerò neo-contemplativo (ascendente san Girolamo, il santo lettore col librone in mano) ha riscoperto un arnese della preistoria, il libro, e riprende a leggere come non gli succedeva chissà da quanto tempo. Si nota un misto di voluttà e disagio nel tenere in mano il libro e qualche difficoltà di lettura, almeno dal tempo impiegato tra una pagina e l’altra, quasi che si sia persa l’abitudine e insieme la concentrazione. Analfabeta di ritorno, ma lo sguardo è più sereno, meno ansioso, cullato nell’adagio di altre vite e altri mondi.
Il terzo tipo umano patisce invece l’anatomia dell’irrequietezza, ascendente Bruce Chatwin. Si dà freneticamente alla deambulazione, rimbalza come una pallina di flipper tra poppa e prua, è in migrazione permanente tra una poltrona e una panchina, ora godendo dell’aria aperta, ora rifugiandosi nei saloni refrigerati. Si capisce che gli manca qualcosa, vuole distrarsi dalla perdita del suo tabernacolo e del suo oracolo insostituibile; così patisce la maledizione dell’erranza.
Il quarto tipo umano, affetto dalla sindrome della Lonza dantesca, sviluppa una fame e una sete insaziabili e cerca di colmare col cibo e le bevande il suo vuoto e il suo lutto. E’ seduto al bar dove mangia tutte le schifezze propinate sulle navi, a prezzo maggiorato. Si capisce che s’ingozza per ingannare l’attesa o beve per dimenticare il suo più caro compagno di vita da cui è impensabile divorziare, a differenza dei sostituibili consorti. Ciondola da un bar all’altro della nave e si offre al martirio del ristorante di bordo, nella versione vassoio o in quella del servizio al tavolo, che funge da conforto, come si usa al sud quando si vuole consolare qualcuno del lutto subito.
Infine c’è una minoranza orfana o vedova del cellulare che è dedita alla seduta spiritica, ascendente il fu Mattia Pascal; non riesce a svolgere alcuna attività sostitutiva e a distrarsi dall’incolmabile perdita e allora tira fuori a intermittenza la salma del telefonino, tenta disperatamente d’intravedere sul suo schermo una tacca di resurrezione o un cenno di risveglio dal coma viaggiante. C’è un riflesso involontario a estrarre l’Attrezzo ogni tre minuti; in taluni si sospetta una variante telefonica del morbo di Alzheimer: si dimentica che è fuori servizio e si cercano segni di vita nella calma piatta dello schermo esanime.
La ripresa di vita dei telefonini, dopo lunga sosta, suscita un’euforia collettiva che fa dimenticare la ragione per cui il miracolo succede: siamo ormai vicini allo sbarco e dovremmo prepararci. Il piacere di sentire un suono, una vibrazione nelle proprie tasche, di estrarli e illuminarsi a vicenda; ha riaperto gli occhi, ha ripreso conoscenza… Per salutare il redivivo, il lazzaro resuscitato, si dimentica la ragione per cui siamo sulla nave: per raggiungere la destinazione.
L’esperimento andrebbe ripetuto almeno un giorno alla settimana, come suggeriva Umberto Veronesi: fa bene digiunare un giorno alla settimana (ma prima della medicina e la dietologia lo suggeriva la religione), cioè astenerci, per dieta mentale, un giorno alla settimana dall’uso del telefonino. Un giorno senza si può stare, non crolla il mondo né la nostra psiche, anzi è bello abitare in un mondo a chilometro zero, senza televita né abdicazione della mente in favore della protesi sostitutiva. E se viaggiassimo, anche solo mentalmente, un giorno a settimana, sulla nave dell’oblio telefonico, accorgendosi che possiamo anche farne senza? Non sto dicendo di rinunciare ai cellulari e buttarli in mare, ma un’altra cosa: riscoprire la possibilità, solo la possibilità, di farne a meno, in un giorno sabbatico di digiuno. Televoto di castità.

Panorama (n.26)