𝐋’𝐈𝐧𝐭𝐞𝐥𝐥𝐞𝐭𝐭𝐮𝐚𝐥𝐞 𝐂𝐨𝐥𝐥𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐨 𝐟𝐮𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐚 𝐚 𝐩𝐢𝐞𝐧𝐨 𝐫𝐞𝐠𝐢𝐦𝐞
Dopo due anni e più di gestazione in tempi di emergenza sanitaria, bellica, economica e politica, è nato o è rinato l’Intellettuale Collettivo.
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L’Intellettuale Collettivo funziona a pieno regime
Dopo due anni e più di gestazione in tempi di emergenza sanitaria, bellica, economica e politica, è nato o è rinato l’Intellettuale Collettivo. Vagheggiato da Gramsci e poi parzialmente realizzato da Togliatti, rilanciato dalla nuova sinistra dopo il ’68, l‘Intellettuale Collettivo è oggi diventato la Voce del Padrone. Non si identifica più con un Partito-Principe, come pensava Gramsci, ma aderisce perfettamente al Potere Vigente, rispecchia il Mainstream e riflette i voleri dell’Establishment interno e internazionale. Gramsci riteneva che l’Intellettuale Collettivo avrebbe dovuto conquistare il potere, era proiettato nel futuro rovesciando la dominazione borghese e capitalista. L’Intellettuale Collettivo odierno invece è l’emanazione del Potere istituzionale e capitalistico, è ripiegato sul presente, celebra lo status quo e il fatto compiuto. Così da rivoluzionario l’Intellettuale Collettivo si fa cortigiano e neo-borghese, funzionario del potere, precettore e ripetitore della sua ideologia. Ieri combatteva il sistema, invece oggi ne è la guardia giurata, l’emanazione diretta ed esclusiva.
Dell’Intellettuale Collettivo conserva però tre caratteri salienti: è organico al Potere-Sistema come il prototipo originario era organico al Partito-Principe; pensa, parla e agisce come se avesse una testa sola, un solo pensiero e un solo organismo, benchè tentacolare. Ed esercita come l’originale l’egemonia culturale e civile, non riconosce l’altrui opinione, ma reputa ogni dissenso come insolenza, infrazione, eversione e patologia regressiva. E’ pensiero dominante, e non nel senso leopardiano ma in senso marxiano: le idee dominanti sono le idee della classe dominante, scrive Marx ne L’Ideologia tedesca.
Dov’è l’Intellettuale Collettivo? E’ nei grandi giornali, nei mass media, nelle reti principali della Tv e della Radio, nell’Editoria, nel cinema, nel teatro, nel potere culturale, accademico e intellettuale e ovunque si diriga, si fabbrichi e si veicoli l’opinione pubblica. Se leggete gli editoriali, i corsivi, i commenti, i reportage, le rubriche di lettere, se ascoltate e vedete i principali organi d’informazione televisiva, vi accorgerete che siamo davvero in presenza di un Intellettuale Collettivo, perché non c’è dissonanza e varietà di opinioni, ma ripetizione, coro, conformità. A volte sono intercambiabili ed è ormai difficile risalire da un’opinione a una testata anziché un’altra, perché si sono conformati come mai era accaduto prima. L’Intellettuale Collettivo dispensa la vulgata dominante in forma di narrazione.
Solitamente ai singoli componenti dell’Intellettuale Collettivo si dà l’appellativo di radical chic, definizione coniata più di mezzo secolo fa da Tom Wolfe. Ma chic sta per elegante, raffinato, di classe (e non nel senso marxista). Invece è più appropriata la definizione che ne dette ancor prima di Wolfe, il conservatore liberale Panfilo Gentile, che li definiva snob spiegando che l’etimologia, pur discutibile, fosse la contrazione di sine nobilitate, senza nobiltà; dunque una finta nobiltà, altro che eleganza. Snob deriva dal verbo snobbare e si riferisce a chi tratta gli altri con altezzoso disprezzo, esercitando razzismo etico, ostentazione di superiorità o trascurando intenzionalmente chi esprime altre idee, altri gusti, altri punti di vista.
In secondo luogo contesto la diffusa espressione di “pensiero unico”: è un ossimoro, una contraddizione in termini: dov’è il pensiero non ci può essere reductio ad unum; il pensiero non è mai unico o uniforme, è sempre libero, inquieto, controverso, plurale, polimorfico. Allo stesso modo è tempo di dismettere l’espressione politicamente corretto. Anziché pensiero corretto dovremmo parlare di pensiero corrotto, perché si tratta in effetti di una corruzione della realtà e della sua varietà, una distorsione e un’alterazione del vero. E’ un moralismo che altera il senso morale, un bigottismo che altera il senso religioso, uno schematismo prefabbricato che altera, anche a livello lessicale, il senso comune della realtà, della natura, della storia. Pure cancel culture non va tradotto come solitamente si fa con cultura della cancellazione ma all’inverso come cancellazione della cultura, che è molto più rispondente alla barbarie di chi vuole abolire autori, eventi, protagonisti del passato ritenuti non conformi. Non ci può essere nessuna cultura nel voler cancellare la storia e le idee difformi allo standard del presente.
Alla Psicopatologia del radical chic dedica un pamphlet affilato lo psicanalista e naturopata Roberto Giacomelli, in cui analizza il narcisismo, il livore e la superiorità morale nella sinistra progressista (ed. Passaggio al bosco, prefazione di F. Borgonovo). Per Giacomelli il radical chic non ha una ideologia ma si crede investito dal “buonsenso maturo e moderato della borghesia illuminata”; in realtà, a mio parere, egli è portatore di un’ideologia, anzi una superideologia implicita e dominante che presuppone la fine di tutte le altre ideologie. E’ un’ideologia che non si presenta come tale, ma come il superamento delle contrapposizioni ideologiche; presume l’epifania della storia, l’apoteosi del presente globale. Il politically correct e la cancel culture, il radicalismo liberal e l’antirazzismo, il progressismo e il globalismo rispondono a un modello ideologico suprematista.
Giacomelli attribuisce al radical chic vizi che in realtà sono diffusi in tutta la società di oggi: il narcisismo, l’egoismo, il cinismo. Ma al di là di queste precisazioni resta la questione di fondo: l’Intellettuale collettivo va a pieno regime e non ammette divergenze.
Panorama (n.18)