La pizza napoletana

GIORNATA MONDIALE DEL PIZZAIOLO, ANZI, DELLA RIVINCITA DEL PIZZAJUOLO NAPOLETANO

Sant’Antonio protegge chi ha a che fare con il fuoco. Come il pizzaiolo, detto all’italiana.
Fu nel Seicento che la pizza napoletana iniziò ad affermarsi, ovviamente a Napoli . A quel tempo, la parola “pizza”, apparsa per la prima volta nel ‘Codex diplomaticus Cajetanus’ di Gaeta dell’anno 997, era riferita a preparazioni rustiche e dolci ripiene, accezione ancora oggi parallela a quella più comune. I fornai di Napoli cuocevano l’impasto condito in modo più semplice: strutto, pepe, formaggio di pecora e tanta “vasinicola”, il basilico, che, per storpiatura, dava a quella pizza il nome di “mastunicola”. La vendevano per le strade. Niente stoviglie e posate; niente tavoli e sedie. La pizza napoletana nacque esattamente come cibo di strada per il popolo partenopeo.

Pizze bianche che dai panifici passarono ad essere sfornate da specifiche botteghe dei “pizzajuoli” di Napoli, come quella inaugurata nel 1738 nella chiassosa strada di Port’Alba. Per consentire agli avventori di mangiarle in piedi, i pizzaiuoli napoletani presero a stendere l’impasto in modo da ottenere uno strato sottile da tenere in forno giusto il tempo della cottura, senza biscottarlo, così da poter ripiegare la pietanza, una volta pronta, due volte sulla sua larghezza, “a libretto”, e metterla tra le mani degli avventori. Ugualmente ripiegate, le pizze venivano sistemate in caratteristici contenitori in rame, le cosiddette “stufe”, utili a distribuire il prodotto caldo e fragrante nelle strade limitrofe, dove venivano consumate senza alcuna formalità.

Ancora a metà dell’Ottocento, quando il pomodoro stava facendo irruzione su pizza e maccheroni napoletani, il pizzajuolo che non preferiva stendere l’impasto a mano usava… il matterello! Non era un’eresia a quell’epoca, come testimonia lo scritto del filologo napoletano Emmanuele Rocco nel 1858:

“Prendete un pezzo di pasta, allargatelo o distendendolo col matterello o percotendolo colle palme delle mani, metteteci sopra quel che viene in testa, conditelo di olio o di strutto, cocetelo al forno, mangiatelo, e saprete che cosa è una pizza”.

Se non si era ancora dotato di una pizzeria secondo l’accezione moderna, ovvero di tavoli in marmo e sedie per consumare al chiuso, il pizzajuolo si organizzava con un banchetto di legno per la vendita, su cui adagiava le pizze appena sfornate e trasferitevi proprio nelle stufe. Impugnava un tipico coltello appuntito, ben affilato, pronto a tagliare spicchi di pizza per chi non voleva acquistarla intera.
Restarono per diversi anni questi i connotati di un tipico mestiere di strada della Napoli preunitaria, poco comprensibile per il resto degli italiani a Italia fatta. Il fiorentino Carlo Collodi, ne ‘Il viaggio per l’Italia di Giannettino’ del 1886 dedicato agli scolari italiani, descrisse i pizzaiuoli di Napoli con disprezzo, scrivendo che la pizza ha “un’aria di sudiciume complicato che sta benissimo in armonia con quello del venditore”. E per venditore si intendeva il pizzaiuolo, come quello ritratto in foto, su una banchina del porto di Napoli.
Lo scritto di Collodi non era assai diverso nei toni da quello, per esempio, di Matilde Serao, ma testimoniava di come la neonata unità nazionale discriminasse il Sud nelle scuole, anche attraverso le sue abitudini alimentari. I pizzaiuoli di Napoli, complice il colera del 1884, furono a lungo infamati come pure la pizza napoletana, i maccheroni e pure le lasagne e il pomodoro, per anni considerati simboli di una napoletanità rozza e popolana. La pizza, in particolar modo, era erroneamente vista come un potenziale veicolo di contagio. La storia romanzata dell’invenzione della ‘margherita’, nel 1889, servì anche a ricostruire l’immagine del cibo napoletano. Se l’aveva mangiato la Regina d’Italia potevano mangiarlo tutti.

Pizze, pizzajuoli e pizzerie restarono una tipicità napoletana fino all’inizio del Novecento, quando l’emigrazione portò con sé anche quella specialità. A conoscerla furono prima gli americani, accogliendo i bastimenti degli emigranti meridionali “pe’ terre assaje luntane”. Solo nel dopoguerra la adottarono anche gli altri italiani. L’americano Ancel Keys assaggiò quella originale, a Napoli, soggiornandovi a lungo nei primi anni Cinquanta per osservare e studiare sul posto la virtuosa alimentazione locale, così da iniziare la comparazione delle diete di vari popoli nel mondo e condurre l’elaborazione del modello nutrizionale della Dieta Mediterranea, ma in un ristorante della vicina Roma gli rifiutarono una comanda particolare: «Spiacenti, niente pizza qui, quella è roba da napoletani».
E infatti era ancora una tipicità esclusiva dei cittadini partenopei, ma da lì in poi iniziò a conquistare la Penisola con velocità eccezionale. Gli italiani, per secoli diffidenti nei confronti della pizza, così come dei maccheroni, delle lasagne e del pomodoro, ancora non lo sapevano che avrebbero adottato quel modello alimentare, e che sarebbe diventato manifesto della cibo italiano nel mondo. E non potevano neanche lontanamente immaginare che chi preparava la pizza, i miseri pizzajuoli napoletani, definitivamente affrancatisi dal matterello e assolutamente votati all’inderogabile “tecnica dello schiaffo” per stendere l’impasto, avrebbero conquistato il prestigio dell’inclusione della loro arte nella lista dei patrimoni immateriali dell’Umanità. Perché il pizzajuolo di Napoli, da secoli, staglia, ammacca, schiaffeggia e poi sforna un capolavoro mai biscottato. Ecco perché c’è differenza tra pizzaiuolo, come giustamente recita l’Unesco, e pizzaiolo. Non sbagliate!

per approfondimenti su questa e altre storie:
Il Re di Napoli (Angelo Forgione – Magenes) Made in Naples (Angelo Forgione – Magenes)
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Angelo Forgione

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