GAETANO SALVEMINI. LO STRAPPO DEL GRANDE STORICO PUGLIESE DAL MERIDIONALISMO MODERATO
(publicato il 26 novembre 2021 sul Quotidiano l’Attacco, pp. 24-25)
Gaetano Salvemini, nato a Molfetta l’8 settembre 1873, è stato uno dei maggiori intellettuali italiani della prima metà del Novecento. Storico, giornalista, politico, attento studioso delle condizioni sociali ed economiche del Mezzogiorno, ha dato vita a una critica radicale al meridionalismo moderato interpretato dagli esponenti che facevano capo alla rivista fiorentina “Rassegna settimanale”, fondata nel 1878 dai giovani toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, autori de “La Sicilia del 1876” . Rivista che aveva accolto tra le sue fila meridionalisti di spessore quali Pasquale Villari, autore delle “Lettere meridionali” , e Giustino Fortunato, che già nel 1879 aveva scritto “La questione demaniale nell’Italia meridionale”.
I cosiddetti “rassegnati” avevano fatto emergere la questione meridionale. Partendo da Villari, avevano stimolato finalmente un dibattito serio sulle condizioni sociali ed economiche del Mezzogiorno, riservando alle politiche governative dei primi decenni una critica serrata, parte rilevante della storia del meridionalismo. Grazie ad essi la questione meridionale era diventata una questione nazionale, sempre e solo nell’ambito limitato di un contesto politico conservatore che, nel 1876, passava dalla Destra storica alla Sinistra. Molti dei rassegnati, nell’ambito del trasformismo inaugurato nel 1882 da Agostino De Pretis, avrebbero fatto carriera, rivestendo anche ruoli politici di prim’ordine.
Gli intellettuali della “Rassegna settimanale” avevano ingenuamente confidato nel riformismo sociale dello Stato e nel senso di responsabilità della potente classe della borghesia agraria latifondista, affinché si ponesse fine alla discriminazione che il Mezzogiorno e le sue masse popolari subivano in ragione di scelte politiche economiche e fiscali inique. Ma il divario Nord-Sud, a fine secolo, era notevolmente cresciuto, come rimarcava Francesco Saverio Nitti nel 1900 in “Nord e Sud” , opponendosi radicalmente a chi tentava di ridurre il mancato sviluppo del Mezzogiorno a condizionamenti di natura antropologica, trascurando totalmente studi, analisi, statistiche, bilanci statali, che attestavano distintamente che il divario era nient’altro che il risultato untuoso di scelte politiche economiche, finanziarie e fiscali.
Lo storico Massimo Luigi Salvadori, in un saggio su Salvemini , in merito alla critica netta ai “rassegnati”, riporta le seguenti rivelanti parole dell’intellettuale pugliese: «Se sono stati studiati benissimo i rimedi, non è stato ancora detto chi rimedierà. In generale gli studiosi del problema meridionale questa domanda o non se la mettono mai o rispondono subito con una parola bisillaba: lo Stato! […] E lo Stato fa il sordo. E poi studiosi continuano nelle loro concioni e eloquentissime. Lo Stato italiano non farà mai nulla, come non ha fatto finora mai nulla».
Gaetano Salvemini si laurea in Lettere a Firenze nel 1896, dove riceve le lezioni di storia di Pasquale Villari. Nell’ex capitale toscana frequenta i circoli socialisti ed entra in contatto con il materialismo storico, maturando una tendenza già innata a difendere i diritti degli ultimi. Già nel 1898, a soli venticinque anni, Salvemini pubblica il saggio “La questione meridionale”, in cui valuta il sottosviluppo del Mezzogiorno basandosi su ricerche storiche e individuando nell’accordo tra la borghesia industriale del Nord e quella agraria del Sud, – complice lo Stato sabaudo -, le ragioni reali e concrete dell’arretratezza. Un’arretratezza che si basa sulla conservazione voluta di una struttura economica nel Mezzogiorno semifeudale, dove i cittadini sono tenuti in condizioni di totale sottomissione al ceto dominante, con governi sempre pronti alla repressione violenta dei frequenti moti popolari o rivolte. Da qui la polemica salveminiana contro i governi liberali, la critica ai meridionalisti moderati, immobilizzati alla ricerca sterile di un solo immaginaile “mito del buongoverno”. Il tutto mentre cresce l’esigenza di costituire una forza politica e un blocco sociale che tutelino finalmente il Mezzogiorno, quando i suoi rappresentanti in Parlamento vengono accuratamente selezionati per tutelare gli interessi degli industriali del Nord e dei latifondisti del Sud.
Il radicalismo classista di Salvemini lo porta a fine secolo a immaginare la fine di una monarchia, che aveva tentato, nel 1894, con Francesco Crispi contro i fasci siciliani e, nel 1898, con Antonio Starabba di Rudinì a Milano e altrove, la repressione violenta dei moti e delle rivolte causate dal carovita e l’adozione permanente delle cosiddette leggi liberticide. Ma nonostante l’avvento al potere di Giuseppe Zanardelli nel 1901, che inaugura l’Età giolittiana, le aspettative democratiche e repubblicane di Salvemini andranno deluse: non saranno attuate quelle politiche antiprotezioniste tanto auspicate a garanzia delle masse contadine del Mezzogiorno con l’accordo delle rappresentanze operaie del Nord.
Salvemini, infatti, aveva pienamente aderito alla battaglia antiprotezionista che il corregionale Antonio De Viti De Marco aveva condotto per primo all’indomani della tariffa doganale del 1887 e che, secondo il salentino, determinava la caduta innaturale dei prezzi dei prodotti agricoli e l’aumento dei prezzi dei manufatti provenienti dalle industrie del Nord, entrambi fattori responsabili di una «depressione economica cronica dell’Italia meridionale» .
Lo storico pugliese, nel mentre il nuovo secolo si presenta con migliori prospettive in termini di legislazione sociale e di peso dei partiti che difendono i diritti dei lavoratori (il radicale Mussi a Milano viene eletto sindaco nel 1899, i socialisti raddoppiano gli esponenti in Parlamento nel 1900), diventa titolare della cattedra di Storia all’università di Messina.
L’inizio del Novecento è anche il momento in cui Francesco Saverio Nitti esprime in “Nord e Sud” la sua radicale critica regionalista alle politiche governative dei primi quarant’anni del Regno d’Italia; un’ analisi che lo storico Salvatore Lupo riassume e sintetizza compiutamente con le seguenti espressioni: «Il Sud ha ricevuto dall’Unità grandi danni, perché le politiche del debito pubblico e del prelievo fiscale lo hanno espropriato dell’abbondante capitale circolante del periodo borbonico, perché le industrie allora fiorenti sono state rovinate dalle scelte libero-scambiste del nuovo Stato, perché i lavori pubblici sono andati al Nord, perché gli impiegati sono in maggioranza settentrionali». Una dura presa di posizione e una ferma scelta di campo che impegna a fondo Giustino Fortunato nel cercare di parare i contraccolpi, allarmato e consapevole che gli scritti del melfese stavano alimentando le già consistenti nostalgie borboniche e i lievitanti sentimenti antiunitari, che nel rionerese avevano sempre trovato un fiero e determinato oppositore, quale convinto allievo desanctisiano .
Un atteggiamento, quello di Fortunato, che induce Antonio Gramsci a ritenerlo, insieme a Benedetto Croce, tra «i reazionari più operosi della penisola», sempre attento a che l’ «impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria» . Un atteggiamento che non lascia indifferente lo stesso Nitti che nel 1903 scrive: «Quando pubblicai il mio libro Nord e Sud sentii dirmi d’ogni parte, soprattutto dai meridionali: – Voi aumentate la discordia». Per Nitti, invece, le sue analisi potevano produrre del bene, aumentare il controllo, diminuire gli abusi; occorreva al contrario temere «la rassegnazione torpida da una parte, la spoliazione sistematica dall’altra».
Salvemini rappresenterà pienamente le tendenze regionaliste e antigovernative, contro le politiche protezioniste di inizio Novecento e tenterà anche, tra le soluzioni possibili per uscire dall’asfissiante centralismo inaugurato con il processo unitario, la via del federalismo in relazione alle tesi di Carlo Cattaneo.
La travagliata esperienza con il Partito socialista si conclude nel 1911, quando Salvemini prende atto che la sua idea di legare i destini del mondo operaio del Nord con quello dei contadini meridionali, al fine di scalfire l’egemonia del blocco agrario latifondista del Mezzogiorno e quello industriale della borghesia settentrionale, non avrebbe avuto un futuro.
È questo l’anno in cui Salvemini fonda “L’Unità”, iniziando o proseguendo un’intensa collaborazione con gli intellettuali che si oppongono alle posizioni protezionistiche di Antonio Giolitti. Tra questi intellettuali è bene ricordare Luigi Einaudi, Edoardo Giretti, Gino Luzzatto, Giustino fortunato, Giovanni Carano Donvito, Umberto Zanotti Bianco, oltre a Piero Gobetti, Ernesto Rossi, Pietro Calamandrei. Un giornale che dal 1911 al 1920 affronta ed esamina tutti i temi caldi di una società che va incontro alla tragedia della guerra mondiale, e che già normalmente deve affrontare e risolvere mille problemi, dalle questioni tributarie e fiscali alle necessarie riforme elettorali, dagli esiti delle politiche protezioniste alla questione meridionale, dall’esodo migratorio alla riforma agraria.
Il Salvemini interventista entra poi in relazione, incoerentemente, con i nazionalisti e con la Destra fino a trovare nella monarchia elementi positivi, dimenticando che il peso maggiore della guerra lo avevano subito pesantemente proprio i suoi contadini del Sud. E nel dopo guerra, distante ormai dai socialisti che lo avevano deluso sul piano del liberismo economico e della questione meridionale, si ritrova in Parlamento grazie alla vicinanza con i gruppi combattenti, dai quali ben presto prende le distanze quando respinge le tentazioni autoritarie del nascente fascismo. Un fascismo che lo vede esule, dopo l’arresto del 1925; prima a Parigi, dove nel 1929 dà vita con altri intellettuali antifascisti (Tarchiani, Lussu, Cianca, Nitti, i fratelli Rosselli, Rossi, Parri, Ginzburg) al movimento Giustizia e Libertà, poi ad Harvard, dove insegna Storia della civiltà italiana.
Tornato in Italia nel 1949, Salvemini riprende a insegnare a Firenze. Lo storico piemontese Salvadori riassume le riflessioni degli ultimi anni di vita dell’intellettuale pugliese: aveva perso la fiducia nella capacità delle élite meridionali, non nutriva più grandi speranze nel suffragio universale che il «ministro della malavita» Giolitti aveva concesso nel 1912, si era ricreduto persino sul federalismo, quasi a permettere una «rivincita tardiva di Turati» che aveva profondamente osteggiato, quasi «un’implicita presa di posizione critica nei confronti della “rivoluzione meridionale” progettata da Dorso» e, persino, «guardando le forze in campo a favore del Sud, non ne vedeva altra se non i comunisti», di cui aveva aspramente combattuto non solo l’ideologia, ma in maniera decisa la linea politica .
Michele Eugenio De Carlo