𝐋’𝐞𝐠𝐞𝐦𝐨𝐧𝐢𝐚 𝐜𝐮𝐥𝐭𝐮𝐫𝐚𝐥𝐞 𝐧𝐞𝐠𝐚 𝐥𝐚 𝐫𝐞𝐚𝐥𝐭𝐚̀ 𝐞 𝐥𝐚 𝐯𝐞𝐫𝐢𝐭𝐚̀
Intervista per Destra.it a cura di Umberto Masoero
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L’egemonia culturale nega la realtà e la verità
Intervista per Destra.it a cura di Umberto Masoero
Nel suo intervento recente in quel di Misano Adriatico – parlando di spirito – ha menzionato lo sgomento che lascia la constatazione dell’irrilevanza della religione nel sentire comune davanti ai drammi della pandemia. Pare che come il virus ha accelerato numerosi processi economici e politici già in atto, così abbia fatto anche per la disgregazione del sentire religioso e spirituale in genere, che già magari per molti era solamente più “epidermico” e vestigiale. Si tratta di un fenomeno i cui effetti si intensificheranno come una slavina che frana a valle, o piuttosto di un qualche cosa che vede come di ordine più passeggero, o magari persino ciclico nell’accezione delle filosofie orientali? Che cosa resterà dello spirito a cento anni da oggi, dal momento che già adesso la stessa parola suona aliena e incomprensibile ai più?
Il fenomeno, purtroppo, non ha nulla di passeggero, e non si esaurirà nemmeno con la pandemia: è una crisi strutturale e profonda aggravata dall’esperienza dell’attuale pontificato e dallo svuotamento spirituale del cristianesimo ridotto a filantropia e diritti umani, accoglienza e migranti. La perdita dello spirituale non è soltanto la scomparsa della religione, ma è la fine dell’umano. Quel che dà all’uomo dignità e libertà, e che lo distingue dalle macchine e dalle bestie, è l’energia spirituale, che fonda la sua anima, la sua mente e il suo cuore e dà un senso alla sua vita. Il transumanesimo di cui si annunciano passi da gigante, sembra avviarsi in questa direzione alienante, perdendo ogni distinzione tra l’automa e l’umano.
Recentemente sono tornato a scoprire Sir Roger Scruton, un personaggio che mi è caro perché nel mio piccolo ne ho condiviso un poco la parabola, da giovane scapestrato e anarchico contrapposto ad un padre iper conservatore (quasi reazionario) quale ero, fino alla scoperta inattesa, da leggermente meno giovane e dopo varie peregrinazioni filosofiche ai margini del radicalismo, di un porto sicuro nel solco di una sorta di ateismo devoto, complice il contatto con le opere dei filosofi della tradizione come Guénon e Evola. Come si spiegano simili peripezie dello spirito? Come si finisce a preferire una dolce morte accasciati tra le radici dell’albero della tradizione come uno Spengler qualsiasi, alla conflagrazione di un glorioso nichilismo attivo alla Nietzsche?
La visione conservatrice è oggi necessaria perché si tratta di salvare la natura, l’uomo, la tradizione e la civiltà. Poi si può essere anche altro, ma quel principio basilare di salvare la realtà, a mio parere resta fondamentale. Poi assicurata quella base si può pensare ad altre altezze; si può amare Nietzsche e non amare “la sua scimmia”, come spregiativamente fu definito Spengler (che era un conservatore un po’ contraddittorio), si può preferire la definizione di rivoluzionario conservatore o di conservatore ribelle e si può perfino accettare la critica al conservatorismo come paura del futuro e amore per le abitudini. Ho sempre detto che almeno in via di principio è giusto essere conservatori sul piano dei principi e innovatori sul piano degli assetti civili, sociali, politici e tecnici. Il conservatore non ama “la dolce morte accasciato alle radici dell’albero della tradizione” ma conserva la gioia delle cose durevoli, ama conservare la fiamma della vita e non fare la guardia alle ceneri.
Da sempre si parla in Italia – e lei in particolare lo fa molto bene – di egemonia culturale della sinistra. Ora però nel contesto dei nuovi equilibri di potere a livello europeo e mondiale sembra che tutto questo scintillante apparato – che pure resiste – sia solamente più una elegante scatola vuota, avendo la sinistra esaurito la sua carica “rivoluzionaria”, abbracciati definitivamente il globalismo e il capitalismo. Le battaglie per il sociale che un tempo erano la sua bandiera sono divenute puramente ideologiche e vuote, anche perché perseguibili solo nella misura in cui il “pilota automatico” dell’Europa e più in generale dell’economia assurta a Leviatano consenta. Come si potrebbe partire dal fallimento pratico dell’approccio radical alla cultura e alla politica per rimettere al centro del gioco il pensiero conservatore, che almeno alla prova del tempo si è rivelato ben più resiliente?
Temo che non sia proprio così: nel senso che sul piano della qualità e dei contenuti quell’egemonia non partorisce da anni opere notevoli, pensieri, percorsi di livello, è come esaurita la sua vena; ma resta forte e attiva come potere d’interdizione, cupola di comando, guardia rossa del politically correct e dei suoi derivati, e s’intreccia sempre più al global-capitalismo, diventando quasi il cappellano militante dell’establishment, a cui offre un simulacro di moralismo ideologico. Il fallimento è vistoso, sul piano delle idee e degli esiti, ma rimane intatto il potere di negazione, la capacità di distruggere e di eliminare chi non si conforma. Finché il potere culturale sarà nelle sue mani a ogni livello e finché si salderà con i grandi poteri economici, tecnocratici, giudiziari e dirigenziali, a nulla potrà servire avere ragione da scalzi…
Come mai in Europa i movimenti di destra sono chiamati dai media e dai giornali d’oltralpe, oltremanica e oltreoceano i “conservatori”, mentre invece nella nostra serva Italia di dolore ostello ci si accanisce a chiamare il centro “centrodestra” e la destra “estrema destra” a scopo diffamatorio, per giunta spesso riferendosi ai movimenti conservatori in Europa e nel mondo come alle “destre”, con l’enfasi e il tono di chi punta il dito contro un caravanserraglio di viziosi ed eccentrici, nostalgici e reazionari? Pare che qui chiunque si senta di destra sia costantemente in ansia di nascondersi sotto alla mantellina dell’invisibilità politically correct dell’antifascismo, continuando però così a perpetuare la sua stessa sudditanza psicologica. Come si esce da questo circolo vizioso, da questo gioco truccato e suicida?
Da noi l’istigazione continua al centro-destra è a farsi liberale, e quindi moderno, antifascista, europeista. E la speranza è che si svuoti, perda consensi, diventi una forza completamente inserita, e in modo periferico, nell’establishment e nel suo perimetro ideologico e pratico. In realtà credo che alla destra tocchi la necessità di questo salto conservatore o perlomeno la capacità di un’offerta politica diversificata in cui il movimentismo nazionale-popolare e sociale, il populismo e il sovranismo, riconoscano il ruolo centrale di un nucleo conservatore. Ma stiamo parlando di ipotesi allo stato attuale non defilate, nemmeno a livello embrionale, se non con o sforzo encomiabile di Giorgia Meloni di far digerire a un’Italia refrattaria e a una destra sociale, nazional-rivoluzionaria, non conservatrice, in buona parte di provenienza missina, almeno la definizione di conservatori, difensori della civiltà e della tradizione.
Per concludere la nostra intervista su orizzonti più filosofici e meno politici (quindi forse anche meno desolanti), che consigli sentirebbe di dare a un giovane conservatore chi si trovi oggi a vivere in questa epoca di dissoluzione sentendosi ad essa estraneo? Come possiamo restare in piedi ogni giorno tra le rovine senza farci contagiare dalla loro diroccata malinconia, divenendo poi a nostra volta untori delle persone a noi vicine e care? Come possiamo realizzare – se lo possiamo, che quasi pare un solve et coagula alchemico – la trasmutazione della nostra sofferenza e miseria spirituale in ricchezza interiore a beneficio nostro e di chi ci circonda?
Il fatto che si parli di stare in piedi tra le rovine da circa settant’anni, come minimo, dimostra che bisogna convivere con questo mondo e con questa epoca, non protestando continuamente la propria estraneità/ostilità e sentendosi sempre alla fine del mondo, mentre scorrono i titoli di coda dell’umanità. Non è così, o perlomeno questa attitudine al distacco può avere qualche fondamento in chi ha raggiunto un’età grave, come il sottoscritto, che ha accumulato troppe delusioni e tanta stanchezza lungo il cammino; ma non si addice a un giovane. A lui suggerisco di impegnarsi in questo processo di trasmutazione, secondo le sue attitudini: bisogna studiare, leggere, intervenire, fare gruppo, collegarsi, esortare gli altri, i tanti, a uscire allo scoperto, esercitare le proprie energie vitali, dedicarsi. Amo dire che alla nostra età abbiamo ormai maturato il diritto di ritirarci, di non partecipare, di non coltivare illusioni e speranze; ma abbiamo il dovere di aiutare o quantomeno incoraggiare chi è giovane e deve ancora cimentarsi con la vita e le sue più grandi imprese. Indipendentemente dall’esito, giova a chi le compie.
Nella foto: sui passi di Nietzsche, Marcello Veneziani con Sossio Giametta, Giuseppe Girgenti e Massimo Donà in Engadina