𝐋𝐨𝐧𝐠𝐚𝐧𝐞𝐬𝐢 𝐞 𝐥𝐚 𝐋𝐞𝐠𝐚 𝐝𝐞𝐢 𝐅𝐫𝐚𝐭𝐞𝐥𝐥𝐢 𝐝’𝐈𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚
“La nostra democrazia ha un solo male, ha una sola tara: quella di esistere come avversaria del fascismo; essa per vivere non trova altra giustificazione che quella di combattere un fascismo morto con Mussolini. Così assistiamo a una lotta di cadaveri verticali contro un cadavere orizzontale”.
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Longanesi e la Lega dei Fratelli d’Italia
“La nostra democrazia ha un solo male, ha una sola tara: quella di esistere come avversaria del fascismo; essa per vivere non trova altra giustificazione che quella di combattere un fascismo morto con Mussolini. Così assistiamo a una lotta di cadaveri verticali contro un cadavere orizzontale”. Così scriveva alla metà degli anni cinquanta Leo Longanesi: per lui era grottesco che ci si attaccasse ancora al fascismo, a dieci anni dalla sua morte. Figuriamoci ora, 76 anni dopo…
Longanesi era un conservatore inquieto, sognava l’ordine e praticava l’instabilità. Due anni prima che morisse, nasceva e moriva precocemente il suo progetto di fondare con la cosiddetta società civile una vera destra in Italia. Quando Salvini e la Meloni non erano ancora nati, nacque in Italia, dalla mente di Longanesi, la Lega dei Fratelli d’Italia. Sarebbe nata dai Circoli del Borghese, il settimanale che Leo aveva fondato cinque anni prima. Doveva dar luogo a un movimento civile prima che politico, di orientamento conservatore, borghese con tratti un po’ ribelli, amor patrio, senso della famiglia e della tradizione, libertà e anticonformismo. Cominciò con entusiasmo, Longanesi, girò mezza Italia per fondarli. E per trovare sponsor incontrò uomini che contavano, tra cui il Berlusconi dell’epoca, il Comandante Achille Lauro, imprenditore monarchico sceso in politica, editore e gran patron di un grande mezzo di comunicazione dell’epoca, le navi. Fu un incontro surreale, mi raccontò un testimone oculare, Toni Savignano, tra il pascià napoletano e l’editore-giornalista romagnolo. Si annusarono ma senza esito. Leo tentò di lanciare a Napoli una destra mezza tradizionale e mezza milanese, con inedite venature padano-borboniche. Ma quella destra non vide la luce. Irriducibili furono le destre a un comune denominatore, allora sparse nella Dc, nelle parrocchie, nei circoli ufficiali, tra i liberali, i monarchici, i giornali d’opinione. Rimase solo la destra missina, o neofascista, che di destra propriamente non era.
Longanesi aveva attraversato il fascismo restando immune dai suoi vizi peggiori; eppure si professò fascista e non risparmiò elogi a Mussolini; mantenne, quando fu con il regime, una divertita libertà che riuscì a esercitare anche sotto l’antifascismo. Perché Leo aveva l’impermeabile dell’intelligenza libera e giocosa. Avrebbe dato rosolio di ricino agli avversari… La destra per Longanesi così come per Giovannino Guareschi, non sarebbe stata liberale e liberista. Era una destra conservatrice, borghese e leggermente anarchica la sua, ma con un forte senso dello stato; cattolica, monarchica e popolare per Guareschi, in versione casereccia alla don Camillo. Longanesi e Guareschi amavano l’italianità mediterranea, cattolica anche quando è pagana, nazional-popolare anche quando è borghese, individualista anche quando invoca l’autorevolezza dello Stato, monarchica anche da repubblicana, provinciale e strapaesana anche quando è cittadina e nazionale. Longanesi sognava un conservatorismo nostrano con le radici nel nostro ragù anziché nel brodo calvinista. Vedeva nell’America un ombrello protettivo e un arnese d’uso, non un modello di vita e di stile. Era una delle “vecchie zie” che avrebbero dovuto salvarci. Lui voleva rifondare la borghesia italiana e darle una sensibilità politica e civile. Ma da noi la borghesia desiderava non apparire tale, né locale né benestante, e pensava solo ai fatti propri. Era una borghesia ottusa ma furbetta; travestita, si vergognava d’esser tale e poi si fece anche radical chic: ripudiava il proprio habitat, la propria classe, i propri costumi per sentirsi moderna. La borghesia prima trescò coi rivoluzionari e i radicali; poi inseguì un individualismo snob e cosmopolita che rifiutava ogni riferimento nazionale e tradizionale. Così la borghesia italiana sparì con Longanesi e il suo Borghese, lasciando un odore di lavanda, talco e cromatina.
Leo Longanesi sognò di far nascere un movimento nazionale, conservatore, popolare e borghese che non fosse neofascista, liberale e tantomeno democristiano. Lui era il presidente, il giovane Piero Buscaroli ne era il segretario: due talenti totalmente privi di senso politico e organizzativo. Debuttò con un affollatissimo convegno su “Cos’è la destra in Italia” al teatro Odeon di Milano. Con un suo discorso “bellissimo e inutile”, dirà Gianna Preda, firma del suo settimanale, scettica sull’iniziativa. Infatti Longanesi si stancò presto del suo movimento, seccato dalla ressa di delusi, lamentosi, arrabbiati che c’era già allora e che lo incalzava ovunque. E la Lega dei Fratelli d’Italia sfumò, sfarinandosi tra missini, monarchici, destra dc e destra liberale. L’epitaffio di quell’avventura si celebrò in una tavolata al Caffè Rosati a Roma nel ’57 con Montanelli, Pannunzio, Flaiano, Benedetti. Indro, che si salvò grazie al suo scetticismo, deplorò Longanesi per le sue scivolate politiche e lo accusò di “averci fatto sedere sulle poltrone più scomode, in guerra con tutti… E tutto questo per difendere il mondo di Longanesi dove non c’era che Longanesi”. Montanelli poi raccontò che Leo lo ascoltava “con la bocca atteggiata a un risolino compiaciuto. E aveva ragione perché tutte queste accuse contro Longanesi erano la sua apologia”. Della Lega dei Fratelli d’Italia non restò neanche il ricordo e si salvò per poco il suo Fondautore. Ma poco dopo, a 52 anni, Longanesi se ne andò, breve e fulminante come sempre; ma per sempre, con una delle sue solite improvvisate, stavolta poco divertente.
MV, Panorama (n.45)