“Una bambina senza testa”: la recensione

“Una bambina senza testa”: la recensione di Alessandro Bertirotti

Recensione di Alessandro Bertirotti, antropologo della mente, per Una bambina senza testa di Antonella Santuccione Chadha e Maria Teresa Ferretti:

Il libro è il risultato di due sensibilità femminili che, oltre ad appartenere a due studiose e ricercatrici, sono portatrici, nel loro modo di essere, del retaggio di due culture e due terre in qualche modo simili: l’Abruzzo e la Sardegna. Non so fino a che punto questo sia un artificio

letterario, tuttavia il libro rivela una sintonia che giunge al lettore come reale.

Il libro, narrandoci storie di casi curati in una clinica per malattie neurodegenerative, ci propone nel contempo, un viaggio all’interno di queste patologie. Le circostanze psicologiche, sociali e culturali sono narrate con sensibilità e partecipazione. Il solo racconto e descrizione della patologia sarebbero stati fine a loro stessi, ma gli autori esprimono chiaramente la visione tecnico-scientifica, spiegando, con molta precisione, eziologia, sviluppo ed esito possibile della patologia mentale. A dire la verità, inizialmente questi inserimenti tecnici disturbano il flusso del racconto, poi, a poco a poco se ne sente quasi la necessità, perché ad un profano certe manifestazioni patologiche possono sembrare inspiegabili e incutono un po’ di paura.

L’io narrante, però, va oltre, perché non solo ci racconta vite ed evoluzioni dei casi che via via ha incontrato nella sua carriera, ma inserisce il racconto del suo momento di vita. Ci rendiamo così conto che quel titolo (che ci sembra così astruso…) racchiude una tragedia esistenziale che nella vita della donna segna veramente la linea di demarcazione tra il prima e il dopo. Questa donna incinta, durante l’ecografia che dovrebbe confermare il sesso del feto, e che già si muove nel suo corpo, su cui lei probabilmente ha già elaborato fantasie di madre, non ha la testa e quindi non ci sarà più la nascita di una creatura.

La ripresa del suo impegno di lavoro avrà uno scopo ancor più personale, proprio perché è lei che dedica la sua vita allo studio del cervello nelle sue patologie. Ed è lei ad essere portatrice di un feto che non ha la testa. Sconcerto e dolore, eppure ricerca di trasformare quel dolore immenso in qualcosa di vitale, come le accade durante gli studi per capire quanto più è possibile sullo sviluppo del cervello, soprattutto nelle donne.

Quindi, il suo lavoro continua, dopo un breve periodo di presa di coscienza e di rielaborazione della tragedia personale. Il suo rapporto con i pazienti per lei è entusiasmante nonostante la tragicità e la straordinarietà delle loro vite. Modula i suoi interventi a seconda delle patologie dei pazienti e di tutti i casi raccontati quello della donna vestita di nero (Frau Berzoni) è quello che lei affronta nel modo più delicato possibile, poiché il racconto della vita di questa creatura è sconvolgente per la sua tragicità. E il fatto che questa donna viva stringendo tra le braccia un bambolotto e rifiuti il contatto con ogni essere umano soprattutto uomini, ivi compresi dottori e infermieri, ci dice che quel cervello-mente ha subito traumi con esiti irrecuperabili. Quindi le vicende dei pazienti si intrecciano con quelle della narrante, che non perde mai di vista la sua realtà e le vita dei suoi pazienti. Il libro si configura quindi come un viaggio all’interno delle patologie neuronali, in particolare l’Alzheimer.

Il testo, secondo l’opinione di chi scrive, può essere letto a due livelli: lo si legge come un racconto coinvolgente, perché tutti siamo o saremo sottoposti ad invecchiamento, e l’alternativa non è certo entusiasmante, e quindi passibili di esperienze analoghe; il secondo livello è quello informativo, poiché gli inserimenti della specialista offrono spunti di riflessione sulla possibilità di trovare aiuto, o prevenire con uno stile di vita adeguato, alcune forme patologiche. Favorisce la lettura il fatto che il racconto sia reso con sensibilità femminile sia quando l’io narrante, quindi la dottoressa, ci racconta la vita dei suoi pazienti che quando descrive la loro patologia, il suo relazionarsi con loro, l’essere presente, sempre in punta di piedi e senza prevaricare (cosa difficilissima con questi pazienti). Ogni racconto termina lasciandoci in sospeso, ancorché si intuisca che a volte la conclusione è positiva e a volte no.

Nel leggere la postfazione ho molto apprezzato quanto è scritto, ma non sono d’accordo sulla dichiarazione che le patologie del cervello sono malattie come le altre, perché dal punto di vista della mia disciplina non è così. Ciò che dell’uomo fa un essere umano pensante che lo differenzia dagli animali è la capacità di pensare in modo unicamente umano, come ci ricorda Michael Tomasello, e se compromettiamo questa capacità tutto è rimesso in discussione e viene così compromesso. Un braccio, una gamba, un fegato, persino il cuore si possono sostituire, ma il cervello che ci fa esseri umani unici e superiori rispetto ad altri, non è sostituibile ed è quello che ci fa essere ciò che siamo. Tuttavia la postfazione coglie l’essenza del problema, il progresso degli studi, le novità operate dal progresso scientifico ed esalta la capacità della medicina di precisione che cura non il sintomo o la malattia, ma approccia il paziente tenendo conto delle caratteristiche relative a ciascuno di noi, unici e irrepetibili proprio con il nostro cervello, anch’esso unico e irripetibile.

Alessandro Bertirotti

www.bertirotti.info

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