Unioni civili? La solita Italia…
È tutta questione di… unione.
Raramente sono in accordo con le esternazioni della Presidente della Camera dei Deputati, ma in questo caso sì, decisamente.
Premetto che personalmente non condivido le possibili forme di adozione da parte di coppie dello stesso sesso, a meno che non si verifichi la situazione in cui uno dei membri della coppia abbia già un figlio frutto di una relazione precedente. In questo ultimo caso, mi sembra legittimo desiderare di educare il proprio figlio e dunque condividere parte della propria esistenza con lui, secondo, ovviamente, le decisioni della magistratura.
Stabilito questo, vengo alla questione che mi interessa.
Penso che la “faccenda del tutto italiana” delle unioni civili sia davvero una questione ideologica, desueta e decisamente demodé, come oramai questa nazione sembra essere in molti settori della sua vita civile. E quando scrivo di “unioni” non mi sto riferendo solamente a quelle omosessuali, ma a qualsiasi altro tipo di unione.
Penso anche che non si tratti, però, di una problematica civile, perché tale definizione presupporrebbe di vivere in un Paese che tenta, almeno in teoria, di vivere civilmente. No, noi siamo decisamente lontani dal concetto di civiltà, come lo intendevano gli illuministi e come molti altri Paesi europei tentano invece di intenderlo, nonostante tutte le difficoltà che questa globalizzazione culturale comporta.
In riferimento dunque alla tematica delle unioni civili, vorrei richiamare la Vostra attenzione sul termine che secondo me disturba la prurigine ipocrita italiana, ossia “unione“. È questa la parola che disturba fortemente, perché investe l’immaginario pornografico italiano e si mescola con una idea di sacralità religiosa che la stessa Santa Madre Chiesa si trova a dover perseguire al suo interno, di fronte ad espressioni comportamentali del proprio clero non sempre degno del ruolo che è chiamato a ricoprire.
Accettare l’unione di due persone significa accettare l’idea che tale “unione” avviene secondo criteri non controllabili da una presunta morale civile che stabilisce i modi in cui tale unione deve avvenire. Significa, inoltre, accettare di non esprimere un giudizio di valore, sia esso positivo o negativo, sulle motivazioni che portano due individui a costruire, nella precarietà più totale, come accade a tutti noi del resto, un progetto di vita che bandisca dalla propria quotidianità la solitudine.
Accettare, infine, il concetto di “unione” significa liberarci da tutte quelle ideologie che lo legano a manifestazioni commerciali, edonistiche che invece i media e la politica promuovono per poter creare la disattenzione necessaria perché non si affronti il vero problema di questa nazione, almeno in questo settore: il proprio analfabetismo affettivo.
Ecco, dovremmo forse pensare e riflettere, specialmente in riferimento alle nostre solitudini di coppia, a quanto siamo soli, anche in due. E sulla base di queste riflessioni, dovremmo astenerci da giudizi aprioristici, specialmente nei confronti di coloro che, per mero amore, vivono uniti con le proprie incertezze e i propri desideri.
Alessandro Bertirotti, antropologo della mente, è nato nel 1964. Si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio Statale di Musica di Pescara e laureato in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Firenze. È Vice Segretario Generale dell’Organizzazione Internazionale della Carta dell’Educazione CCLP Worldwide dell’UNESCO, membro del Comitato Scientifico Internazionale del CCLP e Membro della Missione Diplomatica, per l’Italia, Città del Vaticano, Repubblica di San Marino e Malta, del CCLP Worldwide presso l’Unione Europea. È docente di Psicologia Generale presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Genova. Il suo sito è www.alessandrobertirotti.it