“Uccideteli, uccideteli tutti”: La guerra contro la polizia in Francia
di Yves Mamou 10 aprile 2021
Pezzo in lingua originale inglese: “Kill Them; Kill Them All”: The War against Police in France
Traduzioni di Angelita La Spada
A gennaio, i servizi statistici del ministero dell’Interno hanno registrato, sulla base delle informazioni provenienti dai rapporti della polizia, 2.288 episodi di violenza perpetrata al grido: “Uccideteli tutti!”.
Il sospetto dei media sull’uso illegittimo della violenza da parte della polizia è così forte che gli agenti sotto attacco non si sentono nemmeno autorizzati a usare la propria arma in dotazione.
Le accuse mosse dai media e dal mondo dello spettacolo – attori, cantanti e così via – contro la polizia sono alimentate anche dal mondo accademico.
I codardi della magistratura, ovviamente, si schierano altresì con la folla chic contro la polizia.
Se la polizia non può indagare o proteggere la popolazione perché gli agenti temono di essere definiti razzisti, allora la sicurezza dei cittadini è in pericolo.
Il 25 gennaio a Pantin, un sobborgo di Parigi, il 4 febbraio a Carcassonne, nella parte meridionale della Francia, e il 13 febbraio a Poissy, nel dipartimento degli Yvelines, gruppi organizzati di “giovani” – secondo il vocabolario dei grandi media per evitare qualsiasi designazione etnica – hanno attirato le forze di polizia nei loro quartieri per tendere loro un’imboscata. Al grido: “Uccideteli, uccideteli tutti!”, le pattuglie della polizia sono state attaccate con lanci di esplosivi e dispositivi pirotecnici usati come armi di guerriglia urbana. Tutte le volte, i video degli attacchi sono stati diffusi sui social network.
Tra il 17 marzo e il 5 maggio 2020, la polizia francese ha subito 79 imboscate, secondo quanto emerge dai dati statistici del Ministero dell’Interno pubblicati da Le Figaro. Nell’ottobre 2020, Le Figaro ha calcolato dall’inizio dell’anno almeno dieci attacchi contro distretti della polizia e, secondo Le Monde, più di 85 episodi di “violenza contro pubblici ufficiali” sono stati registrati quotidianamente in tutto il Paese dalla polizia nazionale. A gennaio, i servizi statistici del ministero dell’Interno hanno registrato, sulla base delle informazioni provenienti dai rapporti della polizia, 2.288 episodi di violenza perpetrata al grido: “Uccideteli tutti!”,.
In Francia è in corso una guerra contro la polizia, ma non se ne parla. Al contrario, molti membri dei media, cantati rap, attori, esperti e altri si uniscono a delinquenti e criminali per affermare che una forza di polizia intrinsecamente razzista è attiva in una guerra contro i neri e gli arabi che vivono in Francia.
Continue manifestazioni di protesta ampiamente pubblicizzate e organizzate dal clan di Assa Traoré, sono il miglior esempio di questa inversione. Dal 2016, Assa Traoré, una donna nera di origine africana, conduce una campagna contro la polizia. Ha accusato gli agenti che arrestarono suo fratello Adama di averlo ucciso. Quattro rapporti ufficiali di esperti hanno negato qualsiasi “uccisione” per mano della polizia, ma la Traoré continua la sua lotta e a produrre rapporti di esperti per “dimostrare” che suo fratello è stato assassinato. Ora è appoggiata a livello internazionale. È stata nominata “persona dell’anno” da Time Magazine e si è accaparrata un corposo articolo sul New York Times.
Assa Traoré non è l’unica leader della campagna contro la polizia francese. Nel maggio 2020, mentre la cantante francese Camélia Jordana veniva intervistata su France 2, la Traoré ha accusato la polizia di uccidere quotidianamente neri e arabi, gratuitamente, per puro divertimento. “Gli uomini e donne che vanno a lavorare ogni mattina nei sobborghi” vengono “massacrati per nessun’altra ragione che il colore della pelle”, ha dichiarato la cantante.
Poi, tempestivamente, ha avuto luogo una sequenza surreale: il deputato Aurélien Taché (di La République en Marche, il partito del presidente francese Emmanuel Macron) ha twittato:
“Brava @Camelia_Jordana, ma il prezzo che pagherai sarà terribile (…) lo sapevi. Negheranno, poi sposteranno l’onere della prova e ancora una volta cercheranno di far sembrare le vittime colpevoli”.
La rivista Les Inrockuptibles ha intervistato il regista David Dufresne come “esperto” della brutalità della polizia, visto che una volta ha diretto un documentario sul conflitto permanente tra i giovani delle banlieue e la polizia. Ovviamente, David Dufresne ha confermato le accuse mosse da Camelia Jordana, affermando che la cantante “ha dichiarato delle ovvietà”.
A giugno 2020, il magazine di Sinistra L’Obs si è spinto oltre consegnando il microfono a Omar Sy, il divo francese di origini senegalesi e mauritane sbarcato a Hollywood. Dalla sua villa di Los Angeles, Sy “ha chiesto giustizia per Adama Traoré” e ha fatto un parallelo con George Floyd, invocando “una forza di polizia degna della nostra democrazia”.
Il 24 giugno, Amnesty International ha pubblicato un rapporto che denunciava il razzismo della polizia durante il lockdown imposto in Europa a causa della pandemia di Covid-19. Il 19 luglio 2020, il sindaco di Sinistra di Colombes, nell’Haute-de-Seine, Patrick Chaimovitch, ha paragonato la polizia di Vichy – il regime francese che collaborò con i nazisti durante la Seconda guerra mondiale – a quella odierna. Uno psicoanalista, Gérard Miller, ha invitato la gente a “riflettere sull’osservazione” di Chaimovitch, e un giornalista, Edwy Plenel, ha comparato il nuovo ministro dell’Interno Gérald Darmanin a René Bousquet, un funzionario di alto livello che organizzò l’incursione del Vel d’Hiv durante la Seconda guerra mondiale e collaborò con la Gestapo.
Il sospetto dei media sull’uso legittimo della violenza da parte della polizia è così forte che gli agenti sotto attacco non si sentono nemmeno autorizzati a usare la propria arma in dotazione. Philippe Bilger, un ex magistrato, scrive: “Di fronte a minacce, lanci vari e attacchi fisici, [la polizia] non ha praticamente alcun diritto di usare ciò che la legge l’autorizza a utilizzare”, ossia la propria arma da fuoco.
Le accuse mosse dai media e dal mondo dello spettacolo – attori, cantanti e così via – contro la polizia sono alimentate anche dal mondo accademico. La polizia è accusata di aver effettuato “controlli facciali”, facendo un uso razzista del controllo dei documenti. Questa idea è stata lanciata e alimentata da uno studio pubblicato nel 2009 da Fabien Jobard e René Lévy, due sociologi, i quali hanno affermato che i controlli della polizia vengono effettuati sulla base “dell’aspetto fisico” e “non su ciò che le persone fanno, ma su ciò che sono o sembrano essere”. Nel 2017, Défenseur des droits, un’agenzia statale dedita alla difesa degli inermi, ha accusato pubblicamente la polizia di effettuare controlli di identità razzisti. Il 12 febbraio, Claire Hédon che dirige Défenseur des droits, ha chiesto dai microfoni della radio pubblica France Info di porre fine alle verifiche di identità in “determinati quartieri” e la creazione di “zone dove non si effettuano controlli di identità”.
Le rivendicazioni di personaggi del mondo dello spettacolo, così come gli “studi” dei sociologi di Défenseur des droits, non possono essere contrastati – o corroborati – da studi sociologi che dimostrano che la criminalità è distribuita in modo diseguale tra i diversi strati etnici che compongono la società francese. La legge francese vieta la produzione di dati sulla criminalità in base alla razza o al gruppo etnico. Ciò crea una strana situazione in cui è lecito accusare la polizia di razzismo, ma è vietato e punibile per legge precisare che le persone nere o nordafricane sono sovra-rappresentate nelle carceri e nei dati sulla criminalità rispetto alla loro presenza demografica nella popolazione francese.
L’offensiva lanciata dai media e dai personaggi dello spettacolo contro la polizia è così forte che spesso i politici e i membri del governo non osano opporsi a questi “accusatori” e in modo vile si schierano a favore degli artisti contro la polizia. “Oggi, quando il colore della vostra pelle non è bianco, il rischio di essere di essere fermati dalla polizia è grosso”, ha dichiarato il presidente Macron al magazine Brut, nel dicembre 2020. Con parole in codice, il presidente stava dicendo alla popolazione francese che il comportamento della polizia era razzista.
I codardi della magistratura, ovviamente, si schierano altresì con la folla chic contro la polizia. Nel 2016, la Corte di Cassazione stabilì che “un controllo di identità basato su caratteristiche fisiche associate a un’origine reale o presunta, senza alcuna preventiva giustificazione oggettiva, è discriminatorio. Si tratta di una colpa grave”.
Il 27 gennaio 2021, i legali di sei importanti Ong hanno promosso un’azione collettiva contro lo Stato. Hanno inviato una notifica ufficiale al premier francese Jean Castex, al ministro dell’Interno Gérald Darmanin e a quello della Giustizia Éric Dupond-Moretti, chiedendo di porre fine ai “controlli facciali”.
Lo Stato ha quattro mesi per rispondere alla notifica formale dell’Ong e presentare delle proposte. Se non risponderà in modo soddisfacente, l’azione collettiva contro lo Stato, la prima del genere in Europa, finirà in tribunale.
La polizia francese non è attaccata solo dai cittadini francesi. Anche influenti attori internazionali si sono impegnati a sfidare le risorse investigative della polizia. Il 6 ottobre 2020, la Corte di Giustizia dell’UE ha emesso la propria sentenza su tre casi (C511, C512 e C520/18) riguardanti la “conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione” nel settore delle comunicazioni elettroniche. In altre parole, per proteggere la privacy dei cittadini europei, i governi nazionali non saranno autorizzati a chiedere a un operatore telefonico di conservare (per alcuni mesi) i dati dei clienti. Ad esempio, un ufficiale di polizia giudiziaria non sarà più in grado di ottenere – nel prossimo futuro – dati dettagliati sulle telefonate effettuare e ricevute da un sospetto criminale o le coordinate GPS per le telefonate ricevute ed effettuate nei due mesi precedenti.
Di conseguenza, prevenire e risolvere i crimini sarà molto più complesso e spesso impossibile. Nel 90 per cento dei casi, la polizia ha come unico indizio i numeri di telefono che figurano vicino a una scena del crimine. Tali numeri hanno aiutato la polizia a rintracciare i sospetti, come una scia di briciole.
Le forze che oggi si scagliano contro la polizia – alcuni dei media, celebrità, organizzazioni “antirazziste” e Ong, parte della magistratura francese e tribunali europei per i diritti umani, nonché il cosiddetto Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali – stanno tutte lottando per privare gli Stati europei del loro potere su un punto essenziale: la loro missione di garantire la sicurezza di tutti i cittadini. Jean-Eric Schoettl, già segretario generale del Consiglio Costituzionale, ha scritto:
“Congenitamente, giudici, commissari e, in gran parte, membri del Parlamento europeo rifiutano l’Europa come potenza così come sfidano la sovranità nazionale. Questa allergia alla responsabilità sovrana è nel DNA di una Unione fondata contro l’idea stessa di potenza”.
Se questo modello francese di smantellare la polizia avrà successo, la cosiddetta ideologia antirazzismo, forgiata a metà degli anni Ottanta dalla Sinistra, si dimostrerà lo strumento più efficace per distruggere gli Stati dopo la Rivoluzione bolscevica del 1917. Se la polizia non può indagare o proteggere la popolazione perché gli agenti temono di essere definiti razzisti, allora la sicurezza dei cittadini è in pericolo.
Yves Mamou, vive in Francia, ha lavorato per vent’anni come giornalista per Le Monde.