𝗙𝗼𝗶𝗯𝗲 𝗲 𝗳𝗼𝗯𝗶𝗲
La Giornata del ricordo è l’ultima commemorazione dedicata all’amor patrio istituita nel nostro paese. Resta lì, orfana spaesata nel calendario dell’oblio, destinata a sopravvivere in un’indecorosa semi-clandestinità che volge alla rimozione graduale, fino all’estinzione.
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Foibe e fobie
La Giornata del ricordo è l’ultima commemorazione dedicata all’amor patrio istituita nel nostro paese. Resta lì, orfana spaesata nel calendario dell’oblio, destinata a sopravvivere in un’indecorosa semi-clandestinità che volge alla rimozione graduale, fino all’estinzione. Le altre ricorrenze nazionali galleggiano superstiti e semi-sommerse: il 4 novembre vivacchia sotto falso nome, ripudia la Vittoria, si rifugia nella domenica più vicina e celebra le forze armate per la pace; il 24 maggio è praticamente sparita, se non nella toponomastica residua; il 17 marzo fu una breve meteora che fece la sua apparizione per i 150anni dell’unità d’Italia e poi sparì, dopo un’indecente manfrina di chi la negava per micragnosi calcoli economici. Sono artificialmente tenute in vita il 2 giugno e soprattutto il 25 aprile che è l’unica giornata rimasta davvero festiva nel calendario. Di quelle date resta davvero poco, suscitano residui risentimenti e sempre più vaghi sentimenti. Non c’è in Italia una giornata dedicata all’amor patrio, una festa nazionale sentita e condivisa che ci colleghi alla storia e in positivo alla fondazione della nostra nazione e non solo alla guerra civile e mondiale del secolo scorso. Si moltiplicano invece le giornate vittimistiche…
Le foibe finirono nell’omertà sin da quando furono perpetrate. Perché tiravano in ballo le responsabilità del Pci e dei partigiani rossi nei massacri; perché incrinavano il rapporto con la vicina Jugoslavia di Tito; perché c’era il tabù della cortina di ferro che spartiva due mondi, l’occidente filoamericano e l’est filosovietico e non si dovevano sfrucugliare gli assetti stabiliti. Furono per decenni il ricordo atroce di una minoranza di profughi e il ricordo polemico di una minoranza di “patrioti”, in prevalenza legati al vecchio Movimento Sociale Italiano e ai monarchici. Infine fu ufficializzato il suo ricordo con l’istituzione della giornata. È assurda e meschina la pretesa di bilanciare con la giornata del ricordo il Giorno della Memoria. Per ogni ricordo delle foibe ci sono cento ricordi istituzionali e mediatici della Shoah. Certo, i numeri delle vittime delle due tragedie sono imparagonabili. Ma l’orrore delle foibe assume grande rilievo, numericamente più rilevante della stessa shoah, se è inteso come un capitolo nostrano degli orrori perpetrati del comunismo nel mondo, che si contano – come scrisse Stéphane Courtois – in ottanta milioni di vittime, in gran parte non in tempo di guerra. Ma i paragoni contabili sono odiosi.
Quando il ricordo è forte e vivo non c’è bisogno di dedicarvi una giornata ufficiale e rituale per ricordare. Personalmente preferirei, come già ho detto altre volte, che fossero abolite le giornate mnemoniche e “vittimarie”, non esaurendo la memoria storica nell’orrore. E che si concentrasse in una festa d’Italia, unica e condivisa, la giornata dell’amor patrio e del nostro legame comunitario, che non può ridursi al ‘900 e ai suoi orrori.
La caratteristica delle nostre feste civili è che vengono tenute in piedi e alimentate da un’intenzione polemica: sono sempre feste contro qualcuno, commemorano i giorni del Male o celebrano la cacciata del Maligno, non sono giornate positive della concordia. Sono giornate allusive, contro i presunti eredi del Male. E sono sempre state feste incentrate su reduci, cioè su persone ancora viventi. In fondo le feste dedicate alla Prima guerra mondiale si spensero quando sparirono gli ultimi ragazzi del ’99; così sta accadendo con le commemorazioni legate alla Seconda guerra mondiale. Con ridicoli tentativi di ripescare reduci fino a ieri ignoti, che dopo ottant’anni di silenzio raccontano di essere stati deportati e vittime delle atrocità (sempre dalla stessa parte, naturalmente).
Una festa nazionale ha grande valore simbolico quando annoda le generazioni e racconta un mito di fondazione che si tramanda nei secoli. L’Italia, che è forse il paese più ricco di storia millenaria, converte la sua bulimia di eventi in anoressia celebrativa, la sua memoria antica e sovraccarica si rovescia in amnesia. “Scurdammoce o’ passato” resta alla fine l’unico inno nazionale. Ci unisce l’oblio.
Una raccomandazione alle autorità. Non menatela per favore coi fanatismi nazionalistici per spiegare e al contempo per deviare la tragedia delle foibe. Non fu semplicemente il frutto di una guerra tra odii nazionalistici. L’orrore delle foibe fu perpetrato dai partigiani comunisti di Tito con l’appoggio del comunismo mondiale e dei comunisti italiani, che sposarono – come scrissero in un documento infame dell’epoca, “la tattica delle foibe”. Abbiate l’onesto coraggio di citare il comunismo a proposito delle foibe, senza reticenze. È come se nella Giornata della Memoria non fosse mai citato il nazismo ma ce la prendessimo con il comunismo. Certo, il nazionalismo fu una delle cause che inasprì i rapporti sui confini orientali; così come è noto che l’Unione Sovietica dette una mano a Hitler nell’invasione della Polonia e poi nella caccia e lo sterminio degli ebrei. Ma in entrambi i casi non si può tacere il principale colpevole dello sterminio e va citato per nome: il nazismo per la shoa e il comunismo per le foibe o per i gulag.
Lo sterminio degli italiani nelle foibe e la loro espulsione-espropriazione obbedì a una triplice guerra: la guerra del comunismo contro l’Italia fascista; la guerra di classe dei proletari comunisti contro i benestanti borghesi; la guerra etnica contro gli italiani. Non saltate i due precedenti passaggi e abbiate l’onesto coraggio di chiamare i sicari per nome: furono comunisti. Il nazionalismo in questo caso c’entra assai meno, tant’è vero che collaborazionisti di Tito furono anche i comunisti italiani, i quali si sentivano prima di tutto comunisti, e solo dopo, ma molto dopo, italiani. Per senso storico e carità di patria, teniamo a mente che i carnefici del passato non hanno eredi.
MV, La Verità 9 febbraio 2021