Quando il confine fu venduto: il massacro nascosto di italiani
La storia di due fratelli, al termine della Seconda guerra mondiale, e il confine orientale ceduto ai titini
Matteo Carnieletto – Lun, 01/02/2021
Nei Promessi Sposi, Alessandro Manzoni le aveva definite “gente meccaniche, e di piccol affare”.
Operai e artigiani che guadagnano poco e che sono, allo stesso tempo, attori e spettatori impotenti della grande Storia. È quello che succede quotidianamente attorno a noi, mentre il mondo sfreccia sempre più veloce. È quello che è successo a migliaia di italiani al termine della Seconda guerra mondiale, quando l’Italia, sconfitta, si vide costretta a cedere gran parte dei suoi territori orientali alla Jugoslavia di Josip Broz Tito. Chi, fino a quel momento, si sentiva parte del nostro Paese venne abbandonato oltre confine, in una terra che si faceva ogni giorno più ostile e che avrebbe visto la fuga di almeno 300mila connazionali. Una emorragia che sarebbe durata 13 anni – dal 1943 al 1956 – e che avrebbe preso il nome di esodo giuliano dalmata. Ma non tutti scapparono. A decine di migliaia finirono prima ammazzati e poi gettati nelle foibe, le cavità carsiche che tutto inghiottono.
È in questa cornice che, ne Il confine tradito (Leone editore), Valentino Quintana dipinge la storia dei fratelli Gherdovich, Giorgio e Mattia. Due personaggi sui generis. Il primo, prima di essere un fascista deluso, è un galantuomo che ama l’Italia. Il secondo, un partigiano “che imbraccia la visione del Risorgimento italiano ed europeo”.
Quando l’8 maggio del 1945 i titini entrano a Trieste, Mattia è in estasi: “Attendeva quel momento da anni: suo era il compito di raccontare ai triestini l’iniquità del Fascismo, esaltare la libertà e la lotta di liberazione e la tanto agognata resa dei tedeschi”. La realtà, come è noto, è però diversa. Per quaranta giorni i titini martoriarano Trieste: “I prelievi di persona da parte degli occupanti jugoslavi non cessavano e la gente continuava a parlare insistentemente del ‘Pozzo della Miniera’ di Basovizza, una voragine profonda 250 metri, nella quale, se ci riferiva alle voci correnti, 1200 persone erano già state gettate”.
La prima tappa degli italiani che non si arrendono a Tito è San Pietro del Carso, dove avviene la cernita dei dissidenti e il loro smistamento in Jugoslavia, per essere poi internati o definitivamente eliminati. Come ricorda Quintana, “il pozzo di Basovizza, la foiba Golobivniza di Crognale, San Servolo, il Castello di Moccò, Scadaiscina, la foiba di Casserova, le sorgenti del Risano, Sant’Antonio in Bosco, Dignano solo alcuni dei luoghi del massacro”.
Il 12 giugno del 1945 sembra finalmente terminare l’incubo per Trieste. I titini abbandonano la città, portando con sé tutto quello che possono: “A suon di ordinanze, si sequestrò il patrimonio dell’Enic, si rubò dall’ospedale militare tutta l’apparecchiatura, si spogliò la Telve; un’azienda telefonica; si confisarono le macchine della Società editrice italiana de Il Piccolo, il giornale di Trieste, si depredò l’Eiar, l’ente italiano audizioni radiofoniche istituito dal regime fascista. Danni incalcolabili per la città, che subiva una spogliazione senza precedenti”. La paura sembra alle spalle: “Dopo quaranta giorni di amara passione il tricolore poteva nuovamente sventolare sulla città, in quella precoce estate, al grido comune di Italia! Italia! Italia!”. Ma è solo una illusione. La gente continua a sparire e i due fratelli, che si pensava fossero così diversi, si riscoprono simili. Galantuomini pronti a tutto per la propria terra, che non può non essere italiana.