L’intervista di Philip Roth a Primo Levi

 

L’intervista di Philip Roth a Primo Levi che tutti dovremmo leggere

 È da dodici anni che sono fuori dalla fabbrica. Questa sarà un’avventura per me.

Lo bisbigliava Primo Levi all’orecchio di Philip Roth, che aveva accanto la futura moglie Claire Bloom, mentre si avviavano insieme all’ingresso della Siva, la fabbrica di vernici di Settimo Torinese—specializzata in smalti isolanti per conduttori elettrici di rame—in cui l’autore di Se questo è un uomo era stato impiegato fino alla pensione.

Il grande scrittore americano, morto a maggio 2018, ammirava molto Primo Levi e passò un weekend insieme a lui a Torino nel 1986, l’anno del capolavoro I sommersi e i salvati. Visitarono la fabbrica, passeggiarono—Corso Re Umberto, dove l’italiano viveva, gli ricordava la West End Avenue di Manhattan—conversarono, mangiarono insieme. E quando Roth tornò a casa allestirono una lunga, bellissima intervista epistolare. Che oggi trovi in Perché scrivere?, la raccolta di tutta la nonfiction di Roth.

Un venerdì di settembre 1986 sono giunto a Torino per riprendere una conversazione con Primo Levi iniziata un pomeriggio a Londra nella primavera precedente, e subito gli ho chiesto di portarmi a visitare la fabbrica di vernici in cui aveva lavorato dapprima come ricercatore di laboratorio e in seguito come dirigente.

Rinviamo a questo pezzo di Marco Belpoliti per la storia editoriale del testo. Apparsa precedentemente anche nel libro Chiacchiere di bottega (2004), su La Stampa (1986), e su The New York Times Book Review (1986), mai nella stessa forma (noi citiamo da Perché scrivere), l’intervista inizia però sempre con un breve e penetrante ritratto di Primo Levi composto da Roth.

Levi ha una “barba da Pan” ed è magro, eppure non appare senile ma agile come un bambino. Dal suo atteggiamento giovanile e insieme professorale sprigionano curiosità e intelligenza. Sa ascoltare. E ha un olfatto formidabile, narici che tra i corridoi della fabbrica percorsi da aromi chimici si accendono, dice lui, come quelle di un cane.

Nel suo corpo, e nel suo viso, si intravedono—a differenza di quanto accade nella maggior parte degli uomini—il corpo e il viso del bambino di un tempo. […]

La sua prontezza di riflessi è quasi palpabile, la perspicacia vibra dentro di lui come una piccola fiammella interiore. […]

È concentrato e immobile come uno scoiattolo che osservi qualcosa di sconosciuto dalla cima di un muretto di pietra. […]

Ho percepito in lui un’animazione interiore che mi ha fatto pensare a una sorta di brioso elfo in vitale contatto con i più profondi segreti della foresta. […]

Il tecnico-scrittore che Roth ha davanti—più un “chimico artista” che uno scrittore chimico—è più vecchio di lui di una decina d’anni, e, come tutti sanno, è un sopravvissuto. Profondamente legato alla sua terra di origine: e forse quel radicamento è una risposta al tentativo di “cancellare lui e i suoi simili dalla storia” nei campi di sterminio.

Fare il lavoro che si ama rende davvero liberi

Le domande di Roth sono lunghe. Delle “diagnosi”, come nota l’italiano. Che prendono avvio dai libri fondamentali di Levi—Se questo è un uomo, La tregua, Il sistema periodico, La chiave a stella e Se non ora quando. Il dialogo tra i due grandi scrittori inizia incrociando il tema fondamentale di Primo Levi, il lavoro, con quello fondamentale di Roth (almeno prima dell’ultima sezione di carriera), il sesso. Primo Levi ammette, come emerge dal “Sistema periodico”, un rapporto tra la dedizione al lavoro e la timidezza che lo agguantava da giovane.

Io credo che in quell’epoca il lavoro fosse in effetti per me una compensazione sessuale più che una vera passione. […] Non ho mai cercato di analizzare la mia timidezza sessuale di allora. Ma è certo che essa era in buona parte condizionata dalle leggi razziali di Mussolini.

Ma l’importanza del lavoro per Primo Levi va oltre.

Sono convinto che l’uomo normale è biologicamente costruito per un’attività diretta a un fine. E che l’ozio, o il lavoro senza scopo (come l’Arbeit di Auschwitz), provoca sofferenza e atrofia. Nel mio caso, e in quello del mio alter ego Faussone, il mio lavoro si identifica con il problem solving.

Con una bella intuizione Roth ritiene che Levi nella sua opera non faccia che scrostare la beffarda iscrizione che decorava l’ingresso di Auschwitz, asportandone tutto il cinismo per restituirgli un senso di verità. In effetti, per lo scrittore torinese, come per l’operaio specializzato Fassone protagonista di “La chiave a stella”, fare il lavoro che si ama rende davvero liberi.

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono.

Come la diversità può dare “sapore e senso alla vita”

Primo Levi non smentisce l’attitudine di “uomo di precisione” che Roth gli riconosce. Ma ribadisce che a salvarlo dal campo di sterminio, piuttosto che la capacità di “pensare”, è servita la buona sorte. Spicca tra le altre la domanda sul coinvolgimento degli ebrei nella vita italiana. A cui Levi risponde con una piccola lezione sulla distanza culturale. Sul radicamento. Sull’importanza della diversità.

Non vedo contraddizione fra il ‘radicamento’ e l’essere (o sentirsi) ‘un grano di senape’. Per sentirsi tale, cioè un catalizzatore, uno stimolo per l’ambiente culturale a cui si appartiene, un qualcosa o un qualcuno che conferisce sapore e senso alla vita, non c’è bisogno di leggi razziali né di antisemitismo né di razzismo in generale. Però è utile appartenere a una minoranza (non necessariamente razziale), ossia, in altri termini, non essere troppo puri. […] Possedere due tradizioni, come avviene per gli ebrei ma non solo per loro, è una ricchezza.

Tra l’altro, Levi sostiene di essere appunto un caso anomalo, “un’impurezza”, non tanto perché ebreo—nell’Italia del 1986 per lui non c’era quasi più antisemitismo—quanto perché sopravvissuto che fa il chimico, e scrive libri senza far parte dell’establishment letterario.

Primo Levi e Italo Svevo, tra la scrittura e le vernici

L’ultima domanda di Roth riguarda proprio la fabbrica. Gli scrittori nella storia sono stati soldati. Insegnanti. Medici. Preti. Impiegati. Ma quanti direttori di una fabbrica di vercnici? Roth conosce solo Primo Levi e Sherwood Anderson, che Levi non conosce. Da parte sua il torinese segnala a Roth un altro grande scrittore italiano—un altro grande “impuro”— che l’americano non conosce. Italo Svevo, la cui società produceva vernice antivegetativa per gli scafi delle navi, e che, come ti abbiamo raccontato anche noi, dopo la grande guerra prese lezioni di inglese da James Joyce a Trieste, per poter trattare con la marina britannica. L’intervista si chiude con un bilancio lucido e sereno di Primo Levi sulla sua vita lavorativa.

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Non credo di aver sprecato il mio tempo dirigendo una fabbrica. La mia militanza aziendale […] mi ha mantenuto in contatto col mondo delle cose reali.

Il Primo Levi del settembre 1986 appare un uomo piuttosto sereno, pieno di idee e progetti: immagine in contrasto stridente con quella dell’uomo che si getterà, o cadrà, dalla tromba delle scale del suo palazzo, l’11 aprile 1987.

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