Bergson e l’idea di tempo

Bergson e l’idea di tempo

Autore: Giovanni Sessa

Oltre il logocentrismo

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Henri Bergson ha messo in atto, all’inizio del secolo XX, non semplicemente una reazione speculativa antipositivista, ma si è prodigato al fine di costruire una filosofia nuova. In realtà, il suo contributo teoretico mirava a recuperare il «non detto», l’inespresso o ciò che, nella metafisica  classica, era stato tacitato dalla marcia trionfale del concetto. A ricordarci la centralità della filosofia bergsoniana è la pubblicazione di un volume dallo straordinario valore teorico e storico-filosofico. Ci riferiamo a, Storia dell’idea di tempo. Corso al Collège de France 1902-1903, apparso da poco nel catalogo dell’editrice Mimesis, per la cura di Simone Guidi. Il testo è impreziosito dall’Introduzione del curatore, dalla Prefazione di Rocco Ronchi e dalla Postfazione di Camille Riquier, responsabile dell’edizione francese dei Corsi tenuti da Bergson.

Si tratta della prima traduzione italiana del Corso sulla Storia dell’idea di tempo del 1902-1903, che il filosofo articolò in diciannove lezioni. Il pensatore, nel testamento, aveva stabilito che i Corsi non avrebbero dovuto essere pubblicati. Nel 1990, l’esecutore testamentario concesse l’autorizzazione a che, vista la loro importanza, questi materiali fossero resi disponibili a beneficio di studiosi e lettori. La trascrizione di queste lezioni la si deve a due stenografi, i fratelli Corcos, che, per incarico di Charles Péguy, si recarono presso l’aula del Collège de France, nella quale il filosofo era solito tenere gli incontri con il pubblico e annotarono fedelmente le sue parole. Péguy, si era ammalato e non avrebbe potuto presenziare, come fino ad allora aveva fatto, alle lezioni di Bergson. Questi, del resto, richiamava un numero notevolissimo di ascoltatori, data la straordinaria capacità affabulatoria che caratterizzava il suo eloquio. Ogni conferenza, si trasformava in evento mondano. Una delle ragioni dell’importanza del libro è da cogliersi nel fatto che, le sue pagine, ci restituiscono la parola viva del pensatore dello slancio vitale.

Oltre ciò, il testo presenta tutti gli snodi fondamentali della teoria della durata, attraverso una lettura pragmatica della storia della filosofia da Platone a Kant. In particolare, l’autore si confronta con il problema filosofico per eccellenza: il rapporto tra l’Uno e i molti, tra l’eternità ed il tempo. Tra queste realtà apparentemente inconciliabili: «c’è lo stesso rapporto che intercorre tra la moneta aurea e la moneta ‘coniata’. E’ un rapporto di implicazione necessaria» (p. 13).  Tra la moneta aurea-Uno e la moneta coniata che, per definizione, è molteplice, si instaura una relazione fondata sulla comparazione. Questa, come rileva Ronchi, si risolve in un paragone che mostra come per la metafisica, giunta al suo momento apicale con Plotino, il rapporto che lega l’Uno al mondo sia centrato sulla causalità di «coniazione». Tale relazione per Bergson era perfettamente indicata da un grafo, una rappresentazione geometrica: un cono, da lui tracciato alla lavagna, che dall’apice si distendeva verso la base. Quest’ultima poteva esser compresa solo graficamente, in quanto materia plotinica priva di reale attualità. Il vertice del cono rappresenta l’Uno che, essendo un punto, è privo di estensione ed è sovra-essenziale: «La sua aseità si converte immediatamente […] nella necessità fatale della sua esplicazione illimitata» (p. 16).

imagesBergosn pretende altro dal pensiero: la causalità metafisica è, infatti, l’inversione della  concezione della durata. La «coniazione» metafisica non fa che invertire l’assoluto trascrivendolo in concetti, pensandolo quale concetto puro, idea delle idee, da cui discendono, per deduzione, tutte le cose. In tal senso, il tempo non fa che registrare la melodia dell’eterno, una melodia alla quale il pensatore francese non concede ascolto. Egli, attraverso il recupero gnoseologico dell’intuizione, vuole porsi al di là della dimensione analitica, logocentrica della metafisica classica, che ossifica, a suo dire, la realtà. Meglio, si limita a scambiare i fotogrammi-concetti con la visione d’insieme, rendendosi perciò inadatta a distinguere, per usare una nota immagine bergsoniana, il bozzolo della crisalide dal volo della farfalla. Al di là delle differenze, l’inversione operata del filosofo dello slancio vitale nei confronti della metafisica classica, non è, a dire di Ronchi, effettiva perversione del pensiero metafisico. Durata e causalità metafisica convergono in un punto, l’: «unilateralità del processo di causazione» (p. 19). La causazione bergsoniana pone, diversamente da quella metafisica, al vertice del cono, non un principio immobile ed eterno, ma un assoluto di cambiamento.

Pertanto, il passaggio dall’Uno ai molti non ha, in queste pagine, il tratto della diminutio, della perdita, in quanto il vertice è soglia metastabile, puro slancio creatore, cui immeditamente corrisponde la moltiplicazione negli enti, come accade in Spinoza.  Bergson rovescia l’assunto platonico, alla luce del quale il tempo è immagine mobile dell’eterno, e sostiene, al contrario, che è: «l’eterno a farsi immagine immobile dell’assoluto della durata. Dio perde i suoi tradizionali connotati per risolversi nello slancio creatore di una natura ‘perfetta’ senza essere ‘compiuta’» (p. 20). Tale presupposto teoretico risulta fondativo della cosmologia della durata. Bergson sostiene l’esistenza di una coscienza impersonale, un profondo legame simpatetico, che stringe in uno le coscienze individuali tra loro e alla natura nel suo complesso. La materia viene riportata alla coscienza e alla durata, meglio alla coscienza pura che, come ricorda Guidi, il Bergson di Materia e memoria, definiva, come farà Klages, «immagine». Tale via rigetta a monte la distinzione di soggetto-oggetto e, dopo Kant, riapre l’accesso alla dimensione profonda, noumenica del reale, servendosi del dinamismo leibniziano che, in realtà, è risultato di una rielaborazione di motivi plotinici.

Lungo questa via, il pensatore scopre che il tempo misurabile, esito della causalità greca, altro non è che spazio. Idea questa distante anni luce dal tempo della vita, dall’idea di durata. La lettura eleatica, identitaria, logocentrica del tempo non può pensare in modo compiuto il cambiamento. Lo aveva ben compreso lo stesso Plotino della Enneade terza: il tempo ha tratto psicologico, deriva: «da un’azione vitale dell’Anima […] universale» (p. 39). Ma, nonostante tale intuizione, anche il filosofo dell’Uno rimase, per certi tratti, impigliato nella vocazione matematizzante, «segnica» e concettuale del pensiero ellenico. E’ stato infatti il concetto, l’universale astratto, ad impedire la via d’accesso immediato al reale. Il concetto, per natura, chiude il reale in una stabilità nient’affatto vitale, fondandola sulla distinzione degli enti. Concettualizzare significa ridurre la vita alla dimensione «cosale». Oltre il concetto è possibile, con Bergson, comprendere che: «il nostro corpo, il nostro io, la nostra durata, non sono che concentrazioni, solidificazioni, di una durata universale» (p. 46). Presupposto essenziale, ancora oggi, per la filosofia nuova.

 

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