Troppi scrittori, pochi lettori

𝗧𝗿𝗼𝗽𝗽𝗶 𝘀𝗰𝗿𝗶𝘁𝘁𝗼𝗿𝗶, 𝗽𝗼𝗰𝗵𝗶 𝗹𝗲𝘁𝘁𝗼𝗿𝗶
In Italia, e forse nel mondo, il numero degli scrittori ha superato il numero dei lettori. Non era mai successo nella storia dell’umanità. Per dirla in modo più circostanziato, il numero degli scriventi sui social ha superato il numero dei lettori di libri, riviste e quotidiani. La pandemia ha accresciuto il legame con la tastiera. Aumentano gli utenti social, chiudono edicole, librerie, oltre che cinema e teatro (non solo per il covid). È una rivoluzione copernicana senza precedenti. Ma è un progresso, un regresso, o che?

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Troppi scrittori, pochi lettori
In Italia, e forse nel mondo, il numero degli scrittori ha superato il numero dei lettori. Non era mai successo nella storia dell’umanità. Per dirla in modo più circostanziato, il numero degli scriventi sui social ha superato il numero dei lettori di libri, riviste e quotidiani. La pandemia ha accresciuto il legame con la tastiera. Aumentano gli utenti social, chiudono edicole, librerie, oltre che cinema e teatro (non solo per il covid). È una rivoluzione copernicana senza precedenti. Ma è un progresso, un regresso, o che? È positivo che la gente prenda dimestichezza con la scrittura, migliora il linguaggio, rende più riflessivi; ed è un’inattesa controtendenza se si pensa che negli anni ottanta pensavamo che la civiltà televisiva avrebbe atrofizzato la scrittura. È negativo però che la lettura cali, che si scriva più che si legga, che si presuma di metter becco su tutto e tutti prima di conoscere, paragonare, farsi una cultura, informarsi; scrivere anziché leggere segna il trionfo dell’egocentrismo narcisista. E nonostante i tanti scrittori, il lessico corrente si sta impoverendo e involgarendo.

Pensavo a questa nuova forbice leggendo un libro intrigante dedicato alla scrittura. Un libro sfortunato, tramortito dal lockdown, e postumo perché l’autore, Giuseppe Pontiggia, morì nel 2003. Ha un titolo curioso, Per scrivere bene imparate a nuotare e sono lezioni di scrittura tenute a metà degli anni Ottanta (ed. Mondadori a cura di Cristiana De Santis). La tesi è che la pura spontaneità nello scrivere ci faccia affondare, proprio come chi non sa nuotare. Dunque occorre una tecnica, un ordine, una forma e uno stile, anche minimo.

Pontiggia rivaluta l’arte dello scrivere e l’educazione alla scrittura, la tecnica e la retorica, ed esorta a non abusare con gli aggettivi, gli avverbi, l’enfasi; il troppo stroppia, si diceva una volta. E l’eccesso rende meno efficace il contenuto e il senso di un’affermazione; questo vale nella prosa ma anche nel linguaggio corrente e perfino nelle sentenze giudiziarie. La retorica è preziosa se accresce l’efficacia dello scrivere o del dire; a patto che non si sostituisca ai contenuti ma sia un mezzo per veicolarli meglio.

Sul piano narrativo, sostiene Pontiggia, non si tratta solo di attingere ai ricordi o trascrivere le proprie esperienze ma rielaborarle, nutrirle con l’immaginazione se si vuol dare dignità di racconto. Una scrittura raffinata coltiva poi gli ossimori, l’accostamento dei contrari (il sentimento del contrario è per Pirandello la fonte dell’umorismo); quella fu la chiave della scrittura di Gadda, Manganelli e altri eccellenti prosatori.

Non so davvero se abbiano senso i corsi di scrittura creativa, che io stesso in passato ho tenuto pur premettendo il mio scetticismo; ma educare a scrivere soprattutto oggi che gli scrittori sono ormai un popolo, una vasta area social, è cosa buona e giusta. Diventare scrittori però è un altro paio di maniche. Non si può essere scrittori senza aver prima studiato, corretto, e acquisito una tecnica di scrittura. Ma non vale l’inverso, che con la tecnica e lo studio si diventa scrittori. Sono basi necessarie ma non sufficienti perché poi a quella base occorre dare un’altezza che deriva dall’ingegno, dall’immaginazione, dall’ispirazione, dall’intuizione creativa, dallo stile. E in ogni caso, prima di scrivere si dovrebbe leggere, leggere, leggere. E studiare, educare alla lettura, accettare le correzioni, presuppone una virtù necessaria, almeno quanto l’ambizione di grandezza: l’umiltà.

Ricordo ancora alcune lezioni di scrittura. Dopo le elementari, la mia insegnante di lettere mi segnò con matita blu una parola per me essenziale in quegli anni: non si scrive gioco ma giuoco, chiosò l’insegnante. Ma io leggevo i quotidiani sportivi, sentivo il linguaggio corrente e la ritenevo una correzione leziosa, anacronistica: ragionavo con lo spirito del tempo, ma lei insegnava col rigore della grammatica. Ora il pc mi segna giuoco come errore…

Un’altra volta nel ’68 scrissi un tema sui contestatori alla Scala di Milano: avevo scritto “le uova marce non sono idee”; la prof mi corresse: “delle” idee. Aveva formalmente ragione ma era più efficace la mia frase. Poi da adulto a correggermi fu Mario Capanna, perché le uova lanciate da lui e dai suoi compagni del Movimento studentesco, mi disse, non erano marce. In effetti marce erano le loro idee, come poi si è visto…

Lezione preziosa ebbi dal raffinato Alfredo Cattabiani che curava allora le pagine culturali de Il settimanale: ero un ragazzo, lavoravo su più fronti e in un articolo frettoloso su Gustave Le Bon scrissi “le direttrici di marcia” della sua opera. Lui mi rimproverò con grazia furente: “Ma cos’è questo linguaggio da caserma? Si vede che l’hai scritto in fretta”. Aveva ragione. Non lo riscrissi, lo buttai via.

Una lezione indimenticabile mi impartì Indro Montanelli una trentina d’anni fa. Scrivevo da poco, su suo invito personale, sul Giornale e dedicai un elzeviro a Gramsci per il centenario della sua nascita. Lui mi telefonò e chiamandomi “professore” mi disse che il pezzo era colto e profondo ma troppo da saggio, poco da articolo. Mi invitò a vivacizzarlo con un ritratto del personaggio. Lo riscrissi e partii dalla descrizione che aveva fatto di lui Gobetti, la sua grande testa che sovrastava il suo corpo; fu quella poi la chiave di lettura del pensiero di Gramsci, la sua testa preponderante fu metafora dell’egemonia intellettuale sul corpo sociale. Montanelli mi ritelefonò entusiasta. Una lezione indimenticabile di scrittura e di umiltà.

Morale della favola? In un detto popolare rilanciato da Totò: nessuno nasce imparato.

MV, Panorama, n.48 (2020)