𝗚𝗿𝗮𝗺𝘀𝗰𝗶 𝗲 𝗶 𝘀𝘂𝗼𝗶 𝗳𝗿𝗮𝘁𝗲𝗹𝗹𝗶: 𝘁𝗿𝗲 𝘀𝘁𝗼𝗿𝗶𝗲 𝘁𝗼𝗿𝗺𝗲𝗻𝘁𝗮𝘁𝗲
Antonio Gramsci aveva tre fratelli e tre sorelle. I suoi fratelli, per ragioni diverse, furono per lui un tormento. Con due di loro esercitò appieno il familismo meridionale, si occupò di loro. Il terzo no, però fu in camicia nera.
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Gramsci e i suoi fratelli: tre storie tormentate
Antonio Gramsci aveva tre fratelli e tre sorelle. I suoi fratelli, per ragioni diverse, furono per lui un tormento. Con due di loro esercitò appieno il familismo meridionale, si occupò di loro. Il terzo no, però fu in camicia nera. Ma andiamo con ordine, prendendo lo spunto dalla nuova edizione critica delle sue Lettere dal carcere, arricchite di tredici lettere inedite, uscite in questi giorni da Einaudi a cura di Francesco Giasi.
Partiamo dal fratello maggiore, Gennaro, detto Nannaro, che gli procurò non pochi pensieri; fu l’unico tra i suoi fratelli che seguì le sue idee politiche, fu segretario di sezione e cassiere di una Camera del Lavoro e a Torino fu collocato da suo fratello come responsabile amministrativo del giornale comunista diretto da Antonio, Ordine nuovo. Fu protagonista di una storia che rischiò di coinvolgere anche Antonio; lui racconta in queste nuove lettere ai famigliari quando fu accusato di essere un “ingavidatore fuggiasco” e dipinto “come un mascalzone vizioso, cocainomane, con le dita cariche di anelli”. Ma il responsabile del misfatto era in realtà suo fratello, il lupo Nannaro, che aveva messo incinta una ragazza. Antonio lo convinse a riconoscere sua figlia Mea.
Antonio dovette occuparsi pure di cercare un lavoro all’altro suo fratello più piccolo, Carlo. Ma questa volta, curiosamente, si rivolse al federale fascista di Cagliari, Paolo Pili, che era parlamentare. Carlo, ufficiale nella Grande guerra, era di idee sardiste. Lo stesso Pili raccontò l’episodio che risaliva al 1924 in un’intervista ripresa nel n. 79 della rivista Storia in rete: “Nino era un tipo terribile, eravamo in un periodo in cui era sempre ingrugnito, non parlava mai con nessuno, neppure con il suo gruppo di comunisti. Un giorno, nel corridoio dei passi perduti (a Montecitorio, ndc), mi tirò per la giacchetta, gli chiesi: ‘Come mai ti avvicini a una bestia immonda come me?’, mi rispose di non dire stupidaggini e ci sedemmo. Ricordo che in quel momento Mussolini e Federzoni uscirono insieme dall’aula e, vedendomi con Gramsci, fecero un viso così curioso che non posso dimenticarmelo, specialmente Mussolini, un viso divertito insomma. Gramsci mi ricordò che le sorelle si erano sposate ricamando per la gente e che Carlo, pur volendo lavorare, non riusciva a trovare alcun posto, mi pregò di trovargliene uno qualsiasi”. Cosa si arriva a fare per un fratello… Il familismo prevalse in Gramsci sul comunismo; prima i fratelli, poi i compagni. O magari lui distingueva, come aveva già teorizzato in tema di violenza e cesarismo, tra un familismo “progressivo” e perciò giustificato e uno “regressivo”, deprecato, che riguardava invece gli altri…
Ma la storia più imbarazzante riguarda il terzo fratello, minore di due anni di Antonio; un fratello rimosso, di cui si tace nell’agiografia gramsciana. Perché Mario Gramsci fu fascista, dall’inizio e fino alla fine. Mario era stato un adolescente estroverso e gioviale, a differenza di Antonio, pacato e posato, con cui però aveva grande intesa. Fu avviato al seminario. Ma lui si rifiutò di indossare la tonaca, voleva sposarsi e disse ai suoi famigliari: “Piuttosto mandateci Nino (Antonio veniva così chiamato in famiglia) in seminario. Lui alle ragazze non ci pensa e il prete può farlo”. Si arruolò nell’esercito, poi andò a combattere volontario nella Prima guerra mondiale, tornò sottotenente. Diventò fascista e fu il primo segretario federale di Varese. Non lo dissuase né suo fratello maggiore né le bastonate dei “compagni” di suo fratello. Mario Gramsci fu fascista in disparte e non in carriera. A Varese, dove risiedeva, sposò una donna dell’aristocrazia lombarda. E una volta, nel 1921, l’anno della scissione di Livorno e della nascita del Partito comunista, Antonio andò a trovare suo fratello, stette da lui a Varese per una ventina di giorni.
Mario partecipò alla Marcia su Roma. Cercò di aiutare suo fratello Antonio durante il regime, gli scrisse lettere premurose quando era in carcere. Partì volontario per la guerra d’Abissinia e combatté nel ’41 in Africa settentrionale. Rimase fascista durante il regime, aderì poi alla Repubblica sociale, fu fatto prigioniero, cercarono vanamente di fargli abiurare la sua fede fascista. Venne deportato in un campo di concentramento in Australia. Rientrò nel ’45 con la morte nel petto e morì poco dopo il rientro per le malattie contratte durante la prigionia. Morì in un ospedale di terz’ordine dimenticato da tutti, assistito dai suoi famigliari. Nella disgrazia andò meglio a suo fratello Nino, pur vittima di due dittature, quella fascista e quella sovietica che non volle trattare per liberarlo, complice Togliatti. Antonio finì i suoi giorni assistito e amnistiato, curato nella grande clinica romana Quisisana dai medici Frugoni e Pulcinella, per conto dello Stato italiano, per una malattia che si portava dentro dall’infanzia e che il carcere aveva probabilmente acuito.
Certo, Mario Gramsci non può essere ricordato alla stessa stregua del suo fratello maggiore, che fu un grande del Novecento italiano. Ma con Mario Gramsci meritano di essere ricordati i fratelli minori, tali non solo in senso anagrafico, di un’Italia che fu dal versante sbagliato e ne pagò intero lo scotto, in silenzio e coerenza, dalla parte dei vinti. Fratelli minori e figli di dio minore o di un’Italia ritenuta minore. Nel ’36 Togliatti aveva rivolto un appello “Ai fratelli in camicia nera”; ma per Gramsci non era solo un modo di dire. Antonio e Mario, fratelli d’Italia, quell’Italia in rosso e nero, fraterna e fratricida.
MV, Panorama, n.44 (2020)