Nike e altri marchi mondiali

Nike e altri marchi mondiali, complici nel lavoro forzato della Cina

di Gordon G. Chang 6 agosto 2020

Pezzo in lingua originale inglese: Nike, Other Global Brands, Complicit in China Slave Labor
Traduzioni di Angelita La Spada

A marzo, il no-partisan Australian Strategic Policy Institute, in un documento intitolato “Uyghurs for Sale”, ha accusato Pechino di aver costretto più di 80 mila uiguri e di membri appartenenti ad altre minoranze musulmane a realizzare prodotti per la Nike e per altri 82 marchi.

Le accuse mosse dal rapporto contro la Nike sono pesanti. “Una fabbrica della Cina orientale che produce calzature per l’azienda americana Nike è dotata di torri di guardia, recinzioni di filo spinato e una stazione di polizia”, ha osservato il report (….). Lì le persone vengono trattenute contro la loro volontà in condizioni disumane. Questa fabbrica, fornitrice della Nike da più di tre decenni, produce circa otto milioni di paia di scarpe ogni anno.

La legge statunitense prevede che i prodotti realizzati attraverso il lavoro forzato possono essere sequestrati, ma quelli fabbricati in condizioni orribili in Cina e altrove vengono sistematicamente sdoganati e finiscono sugli scaffali dei rivenditori americani.

 

A man passes by the Nike store on Fifth Avenue as New York City enters  phase two of reopening June 22, 2020. - New York City begins Phase Two of the COVID-19 reopening as people can eat outdoors at restaurants, and barbershops and salons can also open at 50 percent capacity. (Photo by TIMOTHY A. CLARY / AFP) (Photo by TIMOTHY A. CLARY/AFP via Getty Images)
  Come fare perché le calzature della Nike prodotte in una fabbrica circondata da mura, filo spinato e torri di guardia, e dove gli operai – molti dei quali appartenenti a una minoranza etnica – sono trattenuti contro la loro volontà, non vengano realizzate attraverso il “lavoro forzato”? Nella foto: il flagship store della Nike sulla Quinta strada a New York. (Foto di Timothy A. Clary/AFP via Getty Images)

“Lavoro forzato.”

Questo è il termine che il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha utilizzato il 16 luglio per parlare della Cina, ospite nel programma tv di Fox News condotto da Bill Hemmer.

La locuzione eufemistica è “lavoro forzato”. Ma il massimo diplomatico statunitense ha abbandonato la diplomazia per impiegare l’arma più potente d’America: la terribile verità.

La terribile – e orribile – verità è che lo Stato monopartitico cinese ha istituzionalizzato la schiavitù, l’ha incrementata su scala industriale e ha offerto gli schiavi alle aziende straniere. Inoltre, aggravando il suo crimine, la Cina sceglie gli schiavi dalle minoranze etniche all’interno dei suoi confini.

Le parole del segretario di Stato sono arrivate proprio quando Washington ha criticato la comunità imprenditoriale americana. Il procuratore generale William Barr ha stroncato le aziende americane sia nella sua intervista di fine giugno rilasciata a Maria Bartiromo di Fox Business sia nel suo veemente discorso del 16 luglio al Gerald Ford Presidential Museum. La tesi fondamentale dell’amministrazione è che le aziende che godono della protezione statunitense dovrebbero sostenere i valori degli Stati Uniti.

Purtroppo, alcune aziende americane accettano qualsiasi condizione lavorativa cinese purché comporti salari bassi. Nell’intervista rilasciata da Pompeo il 10 luglio a Ben Domenech di The Federalist, il capo della diplomazia ha utilizzato altri due termini riferendosi a quello che stava accadendo in Cina: “traffico di persone” e “schiavitù moderna”.

“Confidiamo”, ha detto il Segretario di Stato a Domenech, “nelle aziende che spesso parlano del bene sociale che vogliono fare – siano esse produttrici di sneaker o altre che sono in prima linea nella lotta per la giustizia sociale – e riteniamo che debbano prendere in seria considerazione il vero rischio dei diritti umani e da dove provenga, e assicurarsi che le loro catene di approvvigionamento siano conformi”.

Nell’intervista a The Federalist, il segretario Pompeo non menziona i malfattori, ma c’è un’azienda produttrice di sneaker che viene inevitabilmente in mente quando si tratta delle turpi condizioni lavorative in Cina. A marzo, il no-partisan Australian Strategic Policy Institute, in un documento intitolato “Uyghurs for Sale” (“Uiguri in vendita”), ha accusato Pechino di aver costretto più di 80 mila uiguri e di membri appartenenti ad altre minoranze musulmane a realizzare prodotti per la Nike e per altri 82 marchi.

Numerosi lavoratori sono stati trasportati su “treni speciali” in zone del Paese al di fuori della terra uigura, che Pechino chiama “Regione autonoma uigura dello Xinjiang” o XUAR.

Le accuse mosse dal rapporto contro la Nike sono pesanti. “Una fabbrica della Cina orientale che produce calzature per l’azienda americana Nike è dotata di torri di guardia, recinzioni di filo spinato e una stazione di polizia”, ha osservato il report.

Quella fabbrica, situata a Laixi, nella provincia di Shandong, è gestita dalla Qingdao Taekwang Shoes Co., di proprietà sudcoreana, che impiega circa 700 lavoratori uiguri, molti dei quali donne. Lì le persone vengono trattenute contro la loro volontà in condizioni disumane. Questa fabbrica, fornitrice della Nike da più di tre decenni, produce circa otto milioni di paia di scarpe ogni anno. È uno dei più grandi stabilimenti di calzature e destina gran parte della sua produzione all’iconica azienda statunitense.

La multinazionale, in un post non datato apparso sul suo sito web e intitolato “Nike Statement on Xinjiang”, ha pubblicato delle smentite generalizzate. La Nike afferma che la Taekwang “ha smesso di assumere dipendenti dalla XUAR nel suo stabilimento di Qingdao e ha confermato che non ha più dipendenti provenienti dalla XUAR”. Inoltre, la Nike ci dice che la Taekwang sostiene che tutti i “dipendenti”, come definisce in modo eufemistico i propri lavoratori forzati, “hanno avuto la possibilità di rescindere o prorogare i loro contratti in qualsiasi momento”.

Ma un’inchiesta condotta dal Washington Post e pubblicata nel marzo scorso mostra che le donne uigure e non solo erano ancora presenti in quella fabbrica e, secondo i residenti locali, non erano arrivate lì liberamente. Da un reportage di febbraio emerge che non è permesso loro fare ritorno a casa. La Nike afferma che ai suoi fornitori è “strettamente proibito utilizzare ogni forma di lavoro obbligatorio, forzato, coatto o svolto in condizioni di prigionia”, ma quei fornitori lo stavano facendo palesemente allora.

La sezione 307 del Tariff Act del 1930 vieta l’importazione negli Stati Uniti di beni prodotti tramite il “lavoro forzato o coatto”.

A suo merito, il presidente Obama ha firmato nel febbraio 2016 il Trade Facilitation and Trade Enforcement Act of 2015 e pertanto ha rimosso la deroga della “domanda di consumo” dalla sezione 307. La deroga, che ha consentito l’importazione di merci prodotte ricorrendo al lavoro forzato se non sono state realizzate “negli Stati Uniti in quantità tali da soddisfare le domande di consumo degli Stati Uniti”, era ampia quasi quanto la norma stessa e ha efficacemente rimosso il divieto del lavoro forzato. Purtroppo, però, l’amministrazione Obama non ha poi fatto rispettare attivamente e rigorosamente la legge contro la Nike, tra gli altri.

I brand americani e internazionali, prima e dopo l’emendamento della sezione 307, sono stati abili a evitare l’applicazione. Oltre ad altre tattiche, essi ottengono certificazioni da aziende di ispezione, che conducono “audit” sulle condizioni di lavoro presso i fornitori.

Gli audit dei fornitori cinesi sono quasi sempre falsi. Gli acquirenti delle merci, quando chiedono i prezzi dei prodotti made in Cina ricevono due risposte: viene loro fornito tanto il prezzo per le merci sottoposte a controlli quanto quello per le merci non controllate. Il differenziale tra i due prezzi, ha detto al Gatestone un acquirente di lunga data dei prodotti cinesi, si avvicina all’incirca al costo delle tangenti per gli “ispettori”.

La legge statunitense prevede che i prodotti realizzati attraverso il lavoro forzato possono essere sequestrati, ma quelli fabbricati in condizioni orribili in Cina e altrove vengono sistematicamente sdoganati e finiscono sugli scaffali dei rivenditori americani.

Questo lassismo ufficiale sta finendo. “Ci sono state anche notizie credibili secondo cui il governo della Repubblica popolare cinese ha facilitato il trasferimento di massa degli uiguri e di altri dallo Xinjiang alle fabbriche di tutta la Cina, anche in condizioni di lavoro forzato o sotto coscrizione”, afferma lo “Xinjiang Supply Chain Business Advisory” pubblicato l’1 luglio dai dipartimenti di Stato, Tesoreria, Commercio e Sicurezza nazionale. La dichiarazione afferma ufficialmente che gli abusi nei confronti degli uiguri, dei kazaki e dei kirghisi e di altre minoranze musulmane non saranno più tollerati.

L’U.S. Customs and Border Protection (CBP), l’autorità doganale statunitense, chiede ai cittadini suggerimenti sui “beni prodotti ricorrendo al lavoro forzato”. “Chi ha informazioni può contattare qualsiasi responsabile o la stessa CBP”. C’è un link dove chiunque può fornire tali indicazioni.

Ecco quindi una domanda per le autorità doganali statunitensi e per tutti coloro che potrebbero voler avanzare un suggerimento: come fare perché le calzature della Nike prodotte in una fabbrica circondata da mura, filo spinato e torri di guardia, e dove gli operai – molti dei quali appartenenti a una minoranza etnica – sono trattenuti contro la loro volontà, non vengano realizzate attraverso “il lavoro forzato”?

“Dobbiamo tutti stabilire le nostre responsabilità morali come americani e in ciò in cui crediamo”, ha detto al Gatestone Jonathan Bass, CEO di PTM Images con sede a Los Angeles e fautore dell’internalizzazione. “Non dobbiamo tollerare il lavoro forzato. Di fatto abbiamo combattuto una guerra sul nostro territorio per porvi fine”.

Gordon G. Chang è l’autore di “The Coming Collapse of China”, è Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute e membro del suo comitato consultivo.