L’ONORE DELLE ARMI
di Raimondo Augello (Movimento 24 Agosto, Palermo)
Le dichiarazioni rilasciate dal Presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, sintetizzabili in un “Prima il Nord” rappresentano davvero un punto di non ritorno: il fondo toccato dalla sedicente “Sinistra Italiana”. Una Sinistra che stavolta nella maniera sfacciata e palese imposta da una dichiarazione pubblica, senza ricorrere a messaggi cifrati o a logiche surrettizie, esce allo scoperto e decide di rivolgersi al Governo nazionale, a Confindustria, agli istinti della fetta più malleabile e seducibile dell’elettorato leghista, ma soprattutto a… se stessa. Un monito a un PD alla perenne ricerca di un’identità, in cui è possibile tutto e il contrario di tutto: anche annoverare tra le proprie fila un Ministro “eretico” come Giuseppe Provenzano, isolato dall’imbarazzo del suo stesso partito per la sola colpa di avere semplicemente coniugato le parole “Italia”, “Sud” ed “equità costituzionale”. Aperture inconcepibili per un partito che ha ormai da tempo cancellato dalla propria agenda almeno due di quelle tre parole. Infatti è da parecchio sotto gli occhi di tutti come una Sinistra che viva di aperitivi, salotti e conventions, strizzando l’occhiolino a banche e Confindustria difficilmente possa avere lunga vita, nella misura in cui, adoperando il linguaggio e gli argomenti delle Destre non può che svolgere quel ruolo peggio dei propri avversari, non foss’altro per il fatto che essi sanno fare meglio il proprio mestiere. Ma il fine di questo articolo non è fare i conti in tasca al PD; per questo ci penseranno i suoi iscritti, se ne avranno voglia, alla luce non delle mie parole, ma della ultima débacle elettorale (che, peraltro, evidentemente non ha insegnato nulla, come testimoniano i “casi” Renzi e Calenda). L’oggetto di questo articolo è invece riflettere sino a che punto di disonore ci si possa spingere quando, abdicando ai principi fondanti per cui si è nati e ci si è sempre battuti, pur di ottenere consensi, si finisce per diventare oggetto di irrisione da parte del peggiore nemico, non meritando, perciò, neppure l’onore delle armi. Princìpi di equità, verità, giustizia sociale e territoriale totalmente ignorati dal discorso di Bonaccini.
Mi riferisco all’articolo comparso ieri, 6 luglio, su “Libero” a firma di un tal Alessandro Gonzato (sic! Nomina sunt res). Un articolo giornalistico che è un coacervo di odio razziale nei confronti del Meridione, di fake news grossolane (ciò che il Nord versa “non ritorna né sotto forma di beni né di servizi. Insomma: trattasi di generosissima beneficienza. … Non passa settimana senza l’annuncio o la richiesta di nuovi investimenti per il Mezzogiorno” un ‘trend’ contro cui gli stessi sindaci Sala e Gori sarebbero arrivati ad “invocare un’inversione di tendenza”), ma soprattutto di disprezzo e di irrisione nei confronti di un “nemico” privo di identità, e dunque immeritevole di quel rispetto che nasce dal riconoscimento della coerenza delle idee altrui, di quell’ “onore delle armi” che di solito si accorda, a uomini ed entità politiche. Un nemico da irridere, che nell’attacco di Gonzato prende proprio l’aspetto (chi glielo avrebbe mai detto?) del barbuto ed occhialuto Stefano Bonaccini, così vicino nelle sue esternazioni a Confindustria Lombardia e agli interessi economici e geo-politici sottesi a “Libero”, così lontano da quella coerenza che procura il rispetto, senza cui l’onore delle armi non può essere accordato, neppure da un semplice… Gonzato.
Bonaccini cui il divertito autore del pezzo non risparmia nulla, soprattutto laddove si tratti di ricordare l’identità originaria dell’oggetto del proprio trastullo; Bonaccini di cui viene evocata l’immagine di quando “sventolava la bandiera rossa portando ancora i calzoni corti”, insomma, un“compagno”, lui e gli altri del PD, come poco dopo con forte sarcasmo li definisce l’ineffabile Gonzato. Sino al “crescendo” finale in cui, ipotizzando un tentativo di Bonaccini di “disarcionare” Nicola Zingaretti dal timone del PD, conclude definendo quest’ultimo “il fratello di Montalbano”, con un ultimo rigurgito di disprezzo verso il Segretario del PD e verso la Sicilia e l’intero Meridione.
Quando il 13 febbraio del 1861, dopo 102 giorni di memorabile assedio (il più feroce subito nella storia millenaria della città, racconta l’ex sindaco Antonio Ciano) la città di Gaeta si arrese alle truppe piemontesi, il nemico permise che per l’ultima volta dagli spalti della fortezza risuonassero le note dell’inno di Paisiello, mentre veniva ammainata per sempre la bandiera del Regno delle Due Sicilie. E’ questa forse l’immagine più commovente e significativa con cui si conclude lo sceneggiato L’Alfiere di Anton Giulio Majano, mandato in onda a puntate dalla Rai nel 1959 (altri tempi!) traendo ispirazione dall’omonimo romanzo di Carlo Alianello (scrittore lucano tra i migliori autori contemporanei, non soltanto per il coraggio della denuncia presente nelle sue opere, ma anche per la prosa fluida e seducente, ma oggetto di una damnatio memoriae di natura ideologica) che racconta gli ultimi giorni di Gaeta. Fu l’onore delle armi. Un onore che anche un nemico spietato (i Piemontesi furono i primi a sperimentare a Gaeta la “tecnica di Sarajevo”: nei due giorni che intercorsero tra la richiesta di tregua e la firma dell’armistizio bombardarono la polveriera della batteria “Transilvania” replicando il bombardamento pochi minuti dopo, appena arrivati i soccorsi, in modo da far sì che la strage fosse massima) non seppe negare a chi si era battuto in condizioni impari, tra indicibili sofferenze (mancanza di acqua, di cibo, epidemia di tifo petecchiale), pur di non abdicare al proprio ideale di patria. Un onore delle armi che fu concesso dal comandante in capo (quel generale Enrico Cialdini, massacratore dell’intero Meridione negli anni seguenti, quelli della cosiddetta “guerra al brigantaggio”) che non seppe astenersi dal pronunciare le parole di profonda ammirazione che di seguito testualmente riportiamo:
“Soldati ! Noi combattemmo contro Italiani, e fu questo necessario, ma doloroso ufficio. Epperciò non potrei invitarvi a dimostrazioni di gioia, non potrei invitarvi agli insultanti tripudi del vincitore. Stimo più degno di voi e di me radunarvi quest’oggi sull’istmo e sotto le mura di Gaeta, dove verrà celebrata una gran messa funebre. Là pregheremo pace ai prodi che durante questo memorabile assedio perirono combattendo tanto nelle nostre linee quanto sui baluardi nemici. La morte copre di un mesto velo le discordie umane e gli estinti sono tutti eguali agli occhi dei generosi. Le ire nostre d’altronde non sanno sopravvivere alla pugna. Il soldato di Vittorio Emanuele combatte e perdona”.
17 febbraio 1861 Cialdini.
(Castelfidardo, Vittore Ottolini, pagg. 276-277)