Genova e Reggio Calabria, il passato che torna
Tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, l’Italia ricorda due anniversari di piazza che dicono molto del nostro passato e del nostro presente. Accaddero a Genova 60 anni fa e a Reggio Calabria 50 anni fa. Due rivolte popolari contro lo Stato, una social-comunista e una missino-populista. Questa repressa coi carri armati, considerata facinorosa e violenta; quella, ugualmente eversiva e violenta, ma tollerata e rispettata al punto di far saltare il governo di centro-destra contro cui era nata e gettare le basi per il centro-sinistra.
Furono chiamati “i ganci di Genova”, come i micidiali ganci usati dai portuali comunisti, i violenti camalli che scesero in piazza per impedire lo svolgersi di un regolare congresso nazionale del Msi. Per i media compiacenti i fatti di Genova furono un revival epico dell’epopea partigiana. Aldo Moro lo definì invece l’attacco “più grave e minaccioso per le istituzioni” dalla nascita della Repubblica. Fu un golpe di piazza che tardò la nascita di una democrazia matura fondata sull’alternanza, resuscitò gli spettri della guerra civile e ricacciò la destra frustrata tra i rigurgiti di neofascismo e i sogni di golpe.
Il principale testimonial di quell’evento, con Umberto Terracini e il Pci, fu il socialista Sandro Pertini, che istigò la mobilitazione violenta contro un pacifico congresso e un legittimo governo liberal-democristiano. Il governo in questione, guidato dal dc Tambroni, era il primo di centro-destra e godeva dell’appoggio esterno dell’Msi, premiato dalle urne. Il paese viveva il boom economico, ormai pacificato, la violenta contrapposizione tra fascismo e antifascismo si era spenta, e anche la guerra fredda, con l’avvento di Krusciov e Kennedy si era intiepidita (salvo poi riaggravarsi a Cuba), assopendo l’antitesi comunismo-anticomunismo. Non era ancora stato eretto il Muro di Berlino.
In quel tempo l’Msi era guidato da Arturo Michelini, un nazional-conservatore che voleva inserire il suo partito nel gioco politico delle alleanze. Negli anni Cinquanta, molte amministrazioni del sud erano rette dall’appoggio monarchico e missino, e perfino il Pci di Togliatti aveva trescato in Sicilia con l’Msi per sostenere la giunta Milazzo. Insomma, la guerra civile del ’45 e il frontismo del ’48 erano ormai ricordi sepolti, come i celerini di Scelba contro i manifestanti o la legge dello stesso Scelba che vietava la ricostituzione del disciolto partito fascista. L’Msi ebbe l’infelice idea di celebrare il suo congresso a Genova, città antifascista con un forte movimento sindacale e comunista. Di fronte alle minacce della sinistra, il Prefetto di Genova saggiamente propose di spostare il congresso missino a Nervi. Ma social-comunisti, Anpi, Cgil e portuali non accettarono il compromesso; volevano cogliere il pretesto del congresso missino per abbattere il governo di centro-destra. Pertini – che perfino il suo compagno di partito Pietro Nenni riteneva un violento – accese la miccia della rivolta col discorso del brichettu (il fiammifero); era proprio il 28 giugno del 1960. Due giorni dopo la città fu messa a ferro e fuoco dagli insorti, come accadde poi nel luglio del 2001 ad opera dei no-global. Aggressioni ai delegati missini, rifiuto di accoglierli in alberghi e trattorie, la celere travolta dai camalli, le jeep della polizia capovolte, incendi, assalti, la città devastata. La polizia non rispose col fuoco e i missini non mobilitarono il loro servizio d’ordine che comunque sarebbe stato soccombente. Ci sarebbero stati molti morti, non solo a Genova. Alla fine a morire fu il governo Tambroni e a restare invalida, azzoppata della gamba destra, fu la democrazia italiana. La spuntarono loro, i camalli d’assalto e le sinistre di piazza. Sotto i colpi della piazza i ministri della sinistra dc rassegnarono le dimissioni, il governo Tambroni cadde e gli stessi che avevano condannato allarmati la violenza di piazza, come Moro e Fanfani, aprirono poi alla stagione del centro-sinistra, portando i socialisti al governo. Quel clima violento perdurò a Genova fino ai primi anni 70, se si considera che tra i primi passi del terrorismo rosso in Italia ci furono l’assassinio del militante missino Ugo Venturini durante un comizio di Almirante e il rapimento del magistrato “destrorso” Mario Sossi.
Dieci anni dopo a sud, nel luglio di 50 anni fa, scoppiò la rivolta di Reggio Calabria. La miccia fu la designazione del Capoluogo per la Regione. I moti di Reggio furono la più lunga rivolta urbana nella storia della nostra repubblica. Durò sette mesi, da luglio a febbraio, lasciò morti e ferite insanabili. La sommossa di Reggio va ricordata per quattro motivi. Fu la prima rivolta contro le Regioni, esplosa nello stesso anno in cui nascevano, come in un battesimo di sangue; fu l’ultima rivolta del Sud, l’ultima insorgenza popolare e populista nel Meridione contro il potere centrale; fu la prima volta che nell’Italia e nell’Europa libere e democratiche scesero per strada contro la popolazione i carri armati, come nei paesi comunisti dell’est, mandati dal governo di centro-sinistra guidato dal doroteo Emilio Colombo. E infine fu l’ultima rivolta di popolo guidata da una destra rivoluzionaria, nazionalpopulista e sindacalista ai bordi dell’Msi, della Cisnal che lambiva in modo trasversale altre forze politiche (inclusa Lotta Continua di Adriano Sofri). Perciò fu dannata come rivolta fascista e accusata di essere manovrata dalla ‘Ndrangheta. La rivolta dei Boia chi molla, fu il ’68 dei terroni, la banlieu dei cafoni.
Una rivolta violenta e demagogica di piazza a nord delegittimò e scacciò il centro-destra al governo; una rivolta violenta e demagogica di piazza a sud fu repressa coi carri armati dal centro-sinistra. Dopo 50-60 anni, tra cortei antifa e antiTrump e piazze tricolori e antiConte, ci sembra di vedere qualche remake…
MV, La Verità 28 giugno 2020
la foto del titoòo dalla rete