Gigi Fiore, giornalista napoletano, autore di numerosi libri, racconta la sua Napoli
Francesca Rossetti Giugno 7, 2020
Gigi Di Fiore è un importante giornalista napoletano autore di numerosi libri, buona parte dei quali dedicati alla splendida città partenopea: sentiamo cosa di racconta di questa bellissima località e della sua vita.
Chi è Gigi Di Fiore e come nasce la passione per la letteratura?
Sono un giornalista napoletano, professionista ormai da 35 anni, che ha avuto la fortuna di vivere periodi e esperienze anche da inviato speciale, che è la mia mansione al Mattino da oltre 20 anni, che mi hanno dato grande arricchimento umano e professionale. La mia passione per la letteratura è andata di pari passo con la mia attività giornalistica negli ultimi 30 anni. Credo che in questo lavoro sia indispensabile leggere di tutto, dai saggi ai romanzi ai giornali. Tutto arricchisce e affina la sensibilità, la conoscenza e la scrittura. Vivo di scrittura e mi è stato quasi naturale arrivare alla produzione letteraria, giunta a oltre 20 pubblicazioni, molte di grande soddisfazione con vendite da decine di migliaia di copie con editori nazionali come Rizzoli, Bur, Utet. I miei interessi culturali e le mie curiosità mi hanno portato quasi come sbocco naturale alla ricerca storica sul Mezzogiorno. Molti giornalisti, come Montanelli, hanno scritto e scrivono di storia. D’altro canto, il giornalista è stato anche definito “storiografo dell’istante” non a caso, dal momento che la metodologia di ricerca e di acquisizione delle fonti è molto simile tra lo storico e il giornalista.
Di che cosa parla “Napoletanità” e cosa cerca di comunicare?
Napoletanità è un punto di approdo dei miei libri precedenti, l’unione di storia e amore per il sud e la mia città. Mi sono chiesto come mai i molti che raccontano Napoli poi non ne sopportano la quotidianità, come Pino Daniele, e ho cercato di rispondere andando alla ricerca del senso dell’essere nati a Napoli e delle caratteristiche di chi ci vive definite napoletanità con termine sintetico. Utilizzo la cassetta degli attrezzi che mi è più congeniale, quella della ricerca storica. Con stile narrativo, che è sempre quello che prediligo nei miei saggi, racconto storie e storia, personaggi e vicende. Ho cercato di dare una visione di Napoli da più punti di vista, chiarendo che i luoghi comuni sulla città, i pregiudizi alimentano degenerazioni e sfruttamenti anche di programmi televisivi. Napoletanità è identità, orgoglio e storia. Il suo opposto, la sua degenerazione, è la napoletaneria che è il folklore, il luogo comune accentuato che tanto piace a certi conduttori televisivi.
Che cos’ha Napoli di unico e particolare rispetto alle altre città italiane e del mondo?
Credo sia davvero una delle città italiane conosciute in tutto il mondo, anche per l’ enorme presenza di immigrati, ora alla terza o quarta generazione, che dal Sud d’Italia si sono trasferiti a partire dalla seconda metà dell’800 negli Stati Uniti, in Sudamerica, in Australia, in Germania, o in Svizzera. La canzone italiana conosciuta nel mondo è quella napoletana diventata, al pari delle opere liriche, forma artistica musicale italiana di fama internazionale. Napoli è stata capitale di dimensione europea, che ora rischia di bearsi nel suo passato senza prospettive o idee sul suo futuro. Prima dell’emergenza coronavirus, c’è stata per alcuni anni un’ubriacatura di turismo selvaggio e anarchico. Finita l’idea industriale con la chiusura dell’Italsider, persi riferimenti nazionali di settori importanti come il Banco di Napoli, la città rischia di richiudersi in se stessa. Molti turisti ne cercavano il caos o la napoletaneria, sta ai napoletani pensare e realizzare un’idea solida di futuro per una città unica al mondo.
Lei si occupa molto di studi sul Risorgimento: qual è stato il ruolo del Regno delle Due Sicilie?
E’ stato il più esteso regno preunitario italiano. Uno Stato dai molti aspetti di modernità, ma anche, al pari degli altri in quello stesso periodo storico, dai molti problemi e limiti, uno Stato che ha influenzato la cultura europea attraverso molti dei suoi esponenti come Vico, Filangieri, Galiani, lo stesso De Sanctis professore alla Nunziatella poi esule per ragioni politiche ma sempre orgoglioso delle sue radici territoriali. Uno Stato figlio dell’epoca delle monarchie assolute, troppo chiuso in se stesso, ma anche con rilevanti industrie come Pietrarsa, uno dei maggiori stabilimenti siderurgici dell’Italia di allora. Non mi appassiona più la ricorrente polemica su chi, prima dell’unificazione, tra Nord e Sud era più avanti e chi più in alto, che oggi continuano a portare avanti soprattutto docenti universitari. Si sono inventati un nemico politico e culturale, il “neoborbonismo”, su cui sono state scritte tesi di laurea. Un nemico che serve, per contrasto, a far diventare bravi, omologati, scientificamente e politicamente corretti chi vi si oppone. E, partendo da questa polemica, diversi professori pubblicano libri, tengono corsi, hanno spazi televisivi. Credo nella verità e nella ricerca storica, con passione e buona fede. Nella storia, esistono processi complessi in successione da conoscere e interpretare con approcci multidisciplinari. Per questo, ho sempre amato molto la scuola francese degli storici de Les Annales, ma anche l’impostazione di ricerca, anche sul nostro Risorgimento, di pragmatici e sempre chiari storici inglesi come Denis Mack Smith, John Davis, il compianto Christopher Duggan, la stessa Lucy Riall.
A “Il Giornale” Lei è stato diretto dal grande Indro Montanelli: ci può raccontare qualche episodio particolare legato alla Sua figura?
Avevo 27 anni, quel palazzo antico di via Gaetano Negri mi sembrava un sogno. Ero imbevuto dei libri di Gaetano Afeltra sul Corriere della Sera. Quando misi piede in redazione, poiché all’epoca Montanelli non voleva ancora i computer, la segreteria mi consegnò forbici, colla e penne. Trovai la macchina da scrivere alzata sulla scrivania e accanto c’era la scrivania di un bergamasco di grandissime capacità e destinato a una bella carriera, scomparso prematuramente. Si chiamava Daniele Vimercati, primo biografo di Umberto Bossi. Nella stanza del settore Interni, guidato da Michele Sarcina, lavorava anche Massimo Bertarelli, poi critico cinematografico scomparso da poco. Le riunioni di redazione si tenevano nella non grande stanza di Montanelli. Partecipai a tre riunioni, con timidezza e timore. Alle nove di sera, il direttore, che in redazione tutti chiamavano “il vecchio”, scendeva nella stanza della composizione tipografica. Per tutti, era l’occasione di avvicinarlo, fargli qualche domanda. Quando lasciai il Giornale per tornare a Napoli assunto dal Mattino, chiesi di parlargli. Credevo che io, il più giovane redattore, venissi ignorato. Invece, “la Iside”, la sua segretaria, mi chiamò per dirmi che il direttore mi riceveva. Rimasi nella sua stanza per una ventina di minuti. Approfittai di quel “solo a solo” per fargli tante domande. All’uscita, appuntai tutto su alcuni fogli, che conservo ancora. Un’esperienza unica e arricchente per me.
Quali saranno le prossime presentazioni?
Bisognerebbe chiederlo al coronavirus. Ne avevo tante in programma, prima del lockdown. Napoletanità è candidato al Premio Napoli e i tradizionali incontri con gli autori sono stati registrati in video e messi in Rete. In poco più di tre minuti, ho cercato di condensare la mia idea sul testo. Ma credo che ci saranno, regole permettendo, possibilità di nuovi incontri su Napoletanità ma non solo. L’ultima presentazione prima dell’emergenza la feci a Roma a fine febbraio. A luglio ne avevo una, a Potenza. Nel frattempo, però, posso rivelare di avere altri progetti in corso. Anche un nuovo libro ancora con Utet, su cui per il momento mantengo ancora il top secret.
Francesca Rossetti
Giornalista iscritta all’albo, attiva nel Sociale e per i diritti umani