Gli italiani, animali spaventati
Eccoli, a piede libero e mente prigioniera. Fanno tenerezza gli italiani come animali spaventati che si riaffacciano all’aperto guardinghi e mascherati, fuggitivi, pronti a evitare ogni vicinanza o assembramento. Portano finalmente a spasso l’animale che si portano dentro e che era dentro fino a ieri, con la minaccia di tornarci domani. Vivete l’oggi perché del doman non c’è certezza.
Perché insisto a definirli, a definirci animali? Perché l’effetto crudo di questa lunga quarantena e dei presagi funesti che avvelenano la libera uscita, è la riduzione dell’uomo, del cittadino, del pensante e del credente, a puro animale. Il contagio, la quarantena, il terrorismo mediatico-governativo ci hanno ridotto alla sfera della nuda vita. Nient’altro siamo in questo momento, e qualcuno inneggia al fatto che il virus ci ha resi tutti uguali. Uguali perché ridotti alla sfera animale dei bisogni. Uguali come animali, privi di parola e di visione, di fede e di pensiero, di creatività e ricreazione.
In fondo la restrizione più profonda, non la più dolorosa ma la più profonda, è proprio quella dello sguardo e della nostra mente. In due mesi abbiamo perso tutto ciò che vagamente chiamavamo spirito, cultura, intelligenza, gusto del vivere. Niente messa e niente chiesa, niente mostre e niente arte, niente dialoghi e niente librerie, niente cinema e niente teatro, niente concerti o sport. E anche ciò che abbiamo la facoltà di fare stando a casa, come leggere e pensare, in fondo non l’abbiamo fatto, impegnati a salvaguardare la pelle, a fare esercizi di ginnastica, poi incollarsi al video per non pensarci, per non pensare. Le attività sociali e conviviali legate alla sfera alimentare sono state sterilizzate e separate dai bisogni fisiologici: file per i generi alimentari, ai supermercati, alle farmacie, tutto ciò che attiene la vita animale, il corpo, mangiare, bere, curarsi. E tutte separate dalla sfera conviviale. Anche il cibo da asporto, è la riduzione a nuda vita del nutrirsi, a patto di non stare insieme, non avere compagni (cum-panis) di cena. La riduzione biologica è stata anche riduzione individuale, solo atomi in solitudine. Rispetto agli animali abbiamo perso il branco e l’aria aperta.
La restrizione mentale è stata adottata e accettata per precauzione, per giusti motivi sanitari; per tutelare i corpi, per salvaguardare la “nuda vita”, come dice Giorgio Agamben. Senza accorgercene abbiamo optato per la pura dimensione biologica della nostra vita, azzerando ogni altra dimensione. “Propter vitam vivendi perdere causas”, diceva Giovenale; ovvero, per salvare la vita perdiamo le ragioni della vita stessa. Per conservarci biologicamente smettiamo di curarci dei motivi che rendono la vita degna di essere vissuta. Tra cui la religione, il pensiero, l’arte, la scienza (se non quella balbettante, applicata alla salute), la fede, la comunità, la politica. E le grandi agenzie spirituali, a partire dalla Chiesa, si allineano e danno la precedenza alla pura vita, alla difesa dell’animale. Meglio un animale sano che un santo malato.
Pure la politica è scomparsa, o quantomeno è sospesa. Al suo posto c’è quella che Georges Bataille e poi Michel Foucault chiamarono Biopolitica. Ossia la politica applicata alla sfera dei corpi e alla loro salute. Anzi, a essere brutali, più che biopolitica chiamiamolo biopotere, ossia potere assoluto nel nome della vita e della morte; ogni procedura, ogni restrizione, ogni divieto è ammesso per salvaguardare il bene supremo, che non è salus populi, la salute del popolo ma di ciascuno. È il potere che garantisce la vita, basta seguire scrupolosamente le norme indicate. Il potere bio-totalitario riesce a isolare i cittadini e li induce a optare tra la vita e la morte. Ho già criticato nel merito queste norme, le intenzioni, i calcoli e i profitti, il terrorismo psicologico che le accompagna e la strategia del protrarre.
Ma non è di questo che sto ora parlando. È l’impoverimento della nostra vita ridotta a fisicità. Tosse, starnuto, prelievo, corsetta, controllo, tampone, mascherina: un ventaglio di paradigmi e di prescrizioni fisiche ha sostituito il nostro lessico, riducendolo solo alla sfera corporale.
Condivido la previsione di Michel Houellebecq che la pandemia non produrrà capolavori. Anche se tutti speriamo in uno solo, la scoperta del vaccino; ma torniamo alla riduzione biologica della vita.
In un’epoca tecnologicamente avanzata come la nostra, la biopolitica tende a farsi psicopolitica, come sostiene il coreano Byung-Chul Han, ossia il potere che plasma e seduce le menti; ma col contagio la seduzione ha ceduto il passo a una più perentoria e brutale prescrizione, anche se il procedimento mentale innescato è sempre lo stesso: interiorizzare le norme del sistema perché servono alla nostra sopravvivenza. È inquietante l’incipit del filosofo coreano: “La libertà sarà stata un episodio”, cioè solo una fase di passaggio. Perché la libertà ha senso se è relazione, se è comunità, altrimenti è solo spazio vuoto, prigione senza muri. E poi aggiunge che il segno della nostra servitù è il passaggio dal raccontare al contare. Contano solo i dati, non le storie. È la dittatura del numero, di cui la Cina, con le sue tecnologie, è l’alfiere.
Il lascito peggiore di questa pandemia sul piano della dignità umana, è proprio questo immiserirsi del nostro orizzonte, piegati a difendere la nuda vita. E naturalmente non con l’inavvertenza, l’incoscienza, il puro istinto dell’animale, ma con la paura, il timore di essere catturati dal virus, il rifiuto del prossimo che si fa remoto, come i morti e il passato che non torna più. Eppure era bella ieri sera la luna piena nel cielo pulito e sul mare proibito di maggio…
M, La Verità 8 maggio 2020
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