Lo sguardo di Compagnone sulla città di Masaniello
L’amarezza è la sua cifra per scandagliare quella Napoli non più «bagnata dal mare»
di Matteo Cosenza
Quando conobbi Luigi Compagnone, con il quale ebbi poi una quasi quotidiana frequentazione per molti anni, ero curioso di capire quanto fosse vero lo spietato ritratto che di lui fece Anna Maria Ortese ne II mare non bagna Napoli , e di conoscere da vicino il «funzionario della radio… alto, distinto, con una piccola testa dai lineamenti classici, coperta di capelli castani, gli occhi, di taglio delicato, di un azzurro purissimo, velati da lunghe ciglia». Fin qui esattamente l’idea che trasmetteva la foto fattagli da Luciano D’Alessandro, nella quale ritrovavo sì «la lotta tra certa nobiltà e gentilezza» ma meno la «disperazione e la perfidia», men che mai «quella parte inferiore di lui… avanzata come un male nascosto» e il lapidario finale di quel «mento aguzzo di vecchio», che l’Ortese gli aveva cucito addosso.
In questi giorni ho ripensato all’autore de L’amara scienza , romanzo «acuto e impietoso» secondo la felice definizione di Enrico Fiore, per quello che vado leggendo su Masaniello, a partire da Napoli, nostalgia del domani di Paolo Macry per proseguire con Napoletanità di Gigi Di Fiore e, soprattutto, con il saggio di Aurelio Musi su Masaniello e sul Masaniellismo , e da ultimo l’articolo di Pietro Treccagnoli sulla rivolta riuscita del «Masaniello di Bruxelles». Per questo ho ripreso dalla scaffale l’ingiallito romanzo di Compagnone, Ballata e morte di un Capitano del Popolo , in cui non è mai scritta la parola Masaniello ma si intende chiaramente che il «Capitano del Popolo» è la sua trasfigurazione.
In quest’opera, dalla scrittura colorita e al tempo stesso incalzante e asciutta come solo può fare chi dal latino ha succhiato il ritmo, si muove una folla sterminata e variegata: ci sono tutti ma proprio tutti i personaggi delle fiabe, dall’Orco alla Bella Addormentata, ovviamente c’è lui, Pulcinella Cetrulo nelle vesti di «Capitano del Popolo», brillano poi il «Cardinale avvucato», i re e le regine, in platea si agita il popolo, «una bestia varia e grossa, che ignora le sue forze» come ammonisce Tommaso Campanella nella sua celebre poesia che apre il libro. La città, naturalmente, è Napoli e il luogo dove abita il Capitano sono piazza Mercato con l’onnipresente forca e il palazzo in cui lui dorme e soprattutto il gàifo da dove muove verso il «mondo» quando non se ne sta seduto su un gradino di lucida pietra vulcanica a dialogare con l’Orco.
La storia inizia e finisce come avvenne davvero, il resto è una continua esplosione di immaginazione. Lo sguardo triste sulla città è ancora più tale per la cifra poetica che Compagnone ha scelto. L’amarezza è evidente e l’indignazione non gridata qui è sottesa al testo, in linea, ma alla sua maniera stilistica, con tanta opera degli scrittori napoletani suoi coetanei, che nel dopoguerra scandagliarono la città e si ritrovarono in quella che, secondo l’Ortese, non era più bagnata dal mare.
Ora penso che, sollecitato dalla ricorrente attenzione alla figura di Masaniello, l’aver ripescato il romanzo di Compagnone pubblicato nel 1974 sia collegato anche alla nostra collaborazione intensa e continua che avemmo alla «Voce della Campania». Il «funzionario della radio» fustigava i napoletani, e quindi sé stesso, con la tranquillità di un figlio il cui bene verso la mamma non è in discussione. Non risparmiando i suoi colleghi: «Essi amano molto i puparuoli, di cui ghiottamente si nutrono. E ne nutrono a cena i loro protettori, che ricambiano con altrettanti puparuoli: ovviamente imbottiti». Per questa opera demolitoria chiamò in soccorso il suo amore intramontabile, Giacomo Leopardi, e la sua satiretta I Nuovi Credent i. Ricordate? «S’arma Napoli a gara alla difesa/ de’ maccheroni suoi; che a’ maccheroni/ anteposto il morir, troppo le pesa». E così mentre lo storico Francesco Barbagallo ricostruiva il clima culturale ostile al poeta di Recanati nel suo agitato soggiorno napoletano, Compagnone la piegava al suo presente: «S’arma Napoli a gara alla difesa/ dei mascalzoni suoi; che i mascalzoni comandano la danza dei cialtroni/ e dei miliardi. Tacita è l’intesa», e sullo stesso tono proseguiva con sulfurea perfidia, forse la stessa che gli aveva rimproverato l’Ortese.
Una collaborazione e anche un’amicizia a tutto campo. Poteva anche lasciarti senza parole per le faccende banali della vita. Quando lasciò la moglie e la sua casa di Posillipo per andare a vivere al Parco Imperiale di Gragnano, alla periferia di Castellammare e a un chilometro da casa mia, con Chellina, la poetessa Rachele La Rotonda, un giorno mi telefonò per chiedermi se potevo ritirare per lui un pacchettino in un negozio di Napoli e portarglielo. Mi recai allo Spirito Santo, parcheggiai come potevo e andai a prendere il pacchettino: era una sedia a rotelle per la sua compagna. Volevo lamentarmi, ma capii che così era fatto Luigi.
Disarmante, generoso, sempre fustigatore e spesso capace anche di autocritica, avidamente volto a indagare le persone e, dunque, l’umanità, soprattutto i giovani dai quali si aspettava qualcosa di meglio di quello che a loro avrebbero lasciato gli adulti. Come quella mattina. Ero in Vespa con mia figlia. L’accompagnavo all’Università per un esame per poi andare al giornale. Passai prima da Luigi per ritirare un articolo. A quel tempo abitava a Monte di Dio al piano terra. Pensai inevitabilmente all’ammezzato dalla cui vetrata Anna Maria Ortese aveva origliato per affrescare le sue vittime, ma qui era diverso. Eravamo a Napoli, a Napoli per davvero. Luigi mi aspettava, io non entrai dalla porta perché la sua finestra affacciava sul cortile. Facemmo tutto così, alla napoletana, io fuori e lui dentro, come se lui abitasse in un «basso» e io stessi in strada. Ovviamente volle conoscere mia figlia e immediatamente incominciò a interrogarla. Lei, impaziente e con la testa altrove, ogni tanto con lo sguardo mi implorava di liberarla, ma ce ne volle. E lui era contento perché un po’ l’aveva conosciuta.
Molto prima di allora aveva collaborato quotidianamente con Paese Sera , al tempo in cui era gestito da una cooperativa. D’accordo con la direzione, l’avevo anche convinto senza faticare molto a scrivere lui il corsivo di prima pagina, lo storico «Benelux» dietro cui in un passato glorioso si erano celate le grandi firme del quotidiano. Un pomeriggio mi telefonò per dirmi che ci lasciava per andare in un altro giornale. Me ne dispiacqui. Poi ci ritrovammo ancora. Perché quel «mento aguzzo di vecchio», nella sua vitalità e nelle sue contraddizioni, mi era caro.
23 aprile 2020 | 09:17
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