Epidemie e storia: 1836, anche il colera arrivò nelle Due Sicilie dal nord Italia
Domenica 15 Marzo 2020 CONTROSTORIE di Gigi Di Fiore
Come sempre, la storia illumina il presente, anche quello difficile nei giorni del coronavirus. Così, rileggendo quanto accadde per l’epidemia di colera del 1836, si trovano molte analogie con l’attualità. Come per le scarse conoscenze mediche sulla malattia. «Le accurate indagini de’ sapienti sono tornate vane sinora, non che a trovare un farmaco certo e determinato che sani l’infermo tocco dal cholera, ma a conoscere solamente come mai questo si apprenda, per quali particolari cause, come proceda da luogo a luogo. Le diverse opinioni ne rivelano una ignoranza maggiore di quella che noi stessi accusiamo» si leggeva negli Annali civili delle Due Sicilie.
Lo storico borbonico Giacinto De’ Sivo raccontò che il «cholèra-morbus» era apparso nel 1817 in India, poi si era esteso in Asia e Europa dalla Russia nel 1830. La diffusione fu rapida: Polonia, Ungheria, Germania, Inghilterra e Parigi nel 1831 per arrivare nel regno sardo-piemontese a Nizza e Cuneo nel 1835. Poi le penetrazione pericolosa nel resto di quell’Italia preunitaria: Torino, Genova, Livorno, Venezia, Roma e Napoli. Nelle Due Sicilie, dove il morbo divenne una tragedia, i primi casi apparvero il 2 ottobre 1836. Morbo d’importazione anche allora, con diffusione rapida a Napoli per le condizioni di scarsa igiene nei rioni popolari.
Due furono le ondate di contagio nella capitale delle Due Sicilie: dall’ottobre 1836 al marzo 1837 e dall’aprile all’ottobre 1837. Le cifre sui morti sono documentate all’Archivio Borbone.
Naturalmente, non esistevano antibiotici, né reparti di terapie intensive, molti, specie tra gli aristocratici, nascondevano i contagi e non seguivano abitudini igieniche come quelle raccomandate oggi. Così, nella prima fase i morti furono 5669 su 10361 ammalati. Nella seconda fase, 14mila su 22mila ammalati.
L’otto agosto 1835, per contenere l’epidemia già comparsa nel nord Italia, il re Ferdinando II di Borbone controfirmò il regolamento del governo. Anche allora, si temeva l’espansione del contagio dal nord al sud: «Buona parte dell’Italia superiore ha pagato tristo tributo di vittime, e sventuratamente un soffio maligno potrebbe una volta contaminare anche il nostro cielo sereno» si legge negli Annali delle Due Sicilie di quei mesi.
Il regolamento delle Due Sicilie fissava «discipline già sperimentate salutari ne’ paesi travagliati dal cholera». Erano essenzialmente raccomandazioni igieniche. Ci fu una «Istruzione popolare» curata dal Supremo magistrato di Salute, che era una specie dell’attuale Istituto nazionale di sanità. Leggere le istruzioni di allora è istruttivo: «nettezza delle strade e delle case pubbliche e private sì nelle città, sì nelle piccole terre». Per l’emergenza, erano previsti luoghi di quarantena anche nelle «più misere terricciuole», per attrezzare ospedali con letti e masserizie.
Nella capitale, si istituì la task force di allora. In ogni quartiere e rione si crearono commissioni di controllo coordinate da una commissione centrale, «destinate a essere braccia operose del governo». Proprio come oggi le Regioni con il governo centrale. Le commissioni dovevano controllare il rispetto delle norme igieniche, evitando disordini. Quando l’epidemia si diffuse, fu vietata la sepoltura dei cadaveri nelle chiese. I defunti erano portati nel nuovo cimitero chiamato poi «sepolcreto dei colerosi», realizzato in fretta dall’architetto Leonardo Larghezza in un’area di ottomila metri quadrati. Per evitare i contagi, fu raccomandato che gli ammalati e i morti di colera venissero subito dichiarati per essere sepolti con rapidità nel cimitero a spese del governo.
A Napoli, l’epidemia si diffuse ovunque, ma di più negli affollati e malandati quartieri popolari. Molti denunciarono i «troppi mendicanti» e i commerci incontrollati di alimenti. «Il vedere che un fatto come quello della trasmissione del morbo per virtù di contatto non possa essere dimostrato in modo da non farne dubitare, forma ipotesi e sistemi che a nulla menano» scriveva il medico Errico Catalano. L’epidemia si diffuse e a Napoli fece anche la sua vittima più illustre: Giacomo Leopardi. Ultimo aggiornamento: 18:43 © RIPRODUZIONE RISERVATA