Il bosco nel Mezzogiorno normanno
Il bosco nel Mezzogiorno normanno non è un luogo ostile come nell’immaginario comune, sorgente di paure e residenza prediletta di presenze misteriose che aggredivano chiunque vi si avventurasse. Al contrario il bosco era un luogo vissuto, protetto, sfruttato, rastrellato quotidianamente, non uno spazio incolto, ma una superficie legata al soddisfacimento di fabbisogni specifici.
Per esempio Edrisi, in merito ai boschi tra Campomarino ed Ancona, scrisse: “In queste solitudini vive una gente che s’annida fra le foreste ed ha luoghi di caccia ed in questi deserti va in cerca di miele”. Solo in pochi casi si trattava di macchie arboree inaccessibili e improduttive perché su di essi venivano esercitati larghi diritti consuetudinari.
Da Sarno a Ravello, da Summonte a Dragonea un ampio genere di esigenze trovava risposta nei boschi. Ovunque v’erano successioni continue di appezzamenti di piccoli proprietari, abbazie o coltivatori che ne avevano ottenuto la concessione.
Vi si faceva legna, vi si pascolavano animali, si raccoglievano frutti, vi comparvero persino vigne, castagneti, spazi recintati perché l’intervento dell’uomo operava la sostituzione delle specie selvatiche con quelle produttive.
Siamo in una epoca in cui il legno era l’elemento centrale, basti pensare che case interamente in legno erano la regola sia in città che in campagna, così come di legno erano attrezzi agricoli e suppellettili domestiche. Tutto questo emerge nella concessione dei diritti d’uso del bosco come distinzione tra ligna e lignamina, fra ligna sicca e ligna virida. Nei boschi si raccoglievano nocciole, castagne, ghiande, si cacciavano cinghiali, daini e cervi, si reperiva il materiale per la costruzione ed il mantenimento della flotta.
Numerose erano le foreste regie, come la celebre foresta del Parco di Altofonte presso Palermo o quella del Moccone nella Sila Settentrionale, fatte oggetto di particolari regolamentazioni da parte dei sovrani che destinavano altri boschi a privilegi e concessioni.
In linea di massima in ogni diploma di fondazione o di donazione di chiese ed abbazie compariva il riconoscimento del diritto di far legna.
Comparvero così figure come quella dei “forestari”, guardiani che segnavano o rivedevano i confini delle aree boschive, ed il bosco fu fatto costantemente oggetto di interessi umani diretti alla trasformazione silvoculturale degli spazi.
Appariva una minaccia remota la distruzione degli alberi e la loro tutela era di fatti limitata alle dure punizioni previste dalle Assise di Ariano per gli incendiari.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
Fonte foto: dalla rete
Fonte bibliografica: P. Corrao, “Boschi e legno”, in Uomo e Ambiente nel Mezzogiorno normanno- svevo, AA.VV., Bari 1989.
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