L’intervista a Enzo Angelo Moccia

Napoli – 20 dicembre 2019. Intervista all’ex capoclan della camorra di Afragola, Enzo Angelo Moccia, tre anni fa scarcerato dopo aver scontato una detenzione di 30 anni (ph new fotosud Alessandro Garofalo)

L’intervista a Enzo Angelo Moccia: «Ero il capoclan, ora credo nei giudici»
 Venerdì 20 Dicembre 2019 di Gigi Di Fiore

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Dal 2015 è un uomo libero, dopo aver scontato 30 anni di carcere di cui 24 di seguito e otto al 41-bis. Enzo Angelo Moccia ha 63 anni e parla con calma, nel ricordare il suo passato violento di capo della camorra dominante ad Afragola inserito nel direttivo di quello che, tra gli anni ’80 e ‘90 del secolo scorso, fu il clan di Carmine Alfieri. Parla, per la prima volta dopo il carcere, per lanciare un appello: «A chiunque si trovi a ricevere richieste di pizzo, ad Afragola come altrove, dico di andare subito a denunciare. Credo ora nella giustizia, nelle forze dell’ordine, nei magistrati, e non ho nulla a che fare con chi spende il mio nome per compiere questi crimini».

Enzo Angelo Moccia, si sente davvero lontano dal suo passato di omicidi e violenza?
«Sì, ho pagato il mio debito con la giustizia. Il passato è parte di me, ma vorrei ora vivere una vita davvero da uomo libero anche se incontro ostacoli».

Cosa ricorda del carcere?
«Quasi nulla, perché le giornate erano tutte uguali e anche tanti anni sono sembrati passare in fretta. Anche del buio del 41-bis non conservo ricordi».

Ha avuto timore in carcere?
«Con la mia storia, il timore era ovunque, anche nel carcere».

Perché non ha mai scelto la collaborazione con la giustizia?
«Ci ho pensato più volte, in maniera sofferta. Non ho mai fatto questa scelta, perché sarei stato male per sempre e sarei potuto arrivare al suicidio».

Non pensa mai alle sue vittime?
«Ho vissuto cose orribili, una storia in anni di sangue, di violenze, di vendette. Iniziai dopo una richiesta di estorsione alla mia famiglia, poi vendette in successione. Ero immerso in una spirale in cui ho sofferto anche l’uccisione di un mio fratello. Ho pagato per questo, avevo un’idea sbagliata di giustizia personale».

Sa che, sulla dissociazione dei mafiosi, di recente anche il ministro Luciana Lamorgese ha espresso critiche?
«No, non conosco la realtà né i personaggi criminali attuali. Non so nulla delle loro decisioni, posso parlare di come nacque la mia».

Come nacque, dunque, la sua idea di dissociarsi dai clan?
«Fu una scelta in evoluzione sin dal 1986, nasceva dalle esperienze di sangue che coinvolgevano la mia famiglia, dall’amore per i miei figli. Mi costituii nel 1992, dopo dieci anni di latitanza. In carcere, conobbi molti terroristi, come Giovanni Senzani. Pensai, sulla scia dei dissociati di terrorismo, che potevo accusarmi di tutto ciò che avevo personalmente commesso, senza coinvolgere altri, assumendomi ogni responsabilità».

Di quanti omicidi si è accusato?
«Parecchi, non ricordo il numero preciso. Di molti, i magistrati non erano a conoscenza».

Poi le accuse dei collaboratori di giustizia, come Pasquale Galasso e Carmine Alfieri. Per loro prova risentimento?
«No. Ero legato da un particolare affetto a Pasquale Galasso, entrambi abbiamo subito l’uccisione di un fratello. Chiese un confronto per incontrarmi, si tenne alla sede Dia a Roma. Pochi sanno che, quando ci vedemmo, chiese che mi togliessero le manette e ci abbracciamo, scoppiando a piangere tutti e due».

Cosa pensò quando proprio Galasso l’accusò di tanti crimini?
«Nulla, lo avevo invitato a farlo senza problemi, avendo fatto già la mia scelta di dissociazione».

Perché pensa che la dissociazione dei mafiosi sia vista con diffidenza dai magistrati?
«Perché si pensa che non sia una scelta definitiva, come dovrebbe essere la collaborazione con la giustizia. Molti pentiti, però, sono tornati a fare i criminali. Io non chiedo giustificazioni, ma non mi sento nato delinquente. La mia strada è stata segnata da una scia violenta di vendette in un contesto di soprusi criminali».

Come vive ora?
«Vivo all’estero, lavorando nel settore alimentare. Ma il mio passato mi perseguita e non per colpa mia. Con i miei fratelli, mi ero trasferito a Roma, ma il nostro cognome, anche senza fare oggi nulla di male, viene bollato e c’è stato chi ha ipotizzato una nostra influenza sulla realtà criminale della capitale. Hanno pubblicato addirittura una mappa, in cui i Moccia figurano nel controllo del quartiere Parioli. Non è vero, ma ho deciso di lasciare Roma, dove mi trovavo bene, per andare all’estero».

Cosa spera per i suoi figli?
«Siamo quattro fratelli, abbiamo dodici figli e 5 nipoti. Conducono una vita onesta, e soprattutto per loro vorremmo che il marchio che ci accompagna fosse rimosso. Si può scontare una pena e cercare di essere dimenticati nella riabilitazione, ma sembra che a noi non sia consentito».

A cosa allude?
«In ogni arresto ad Afragola e dintorni si parla di clan Moccia, che non esiste più da anni. Il mio passato di omicidi per vendette e per il pizzo ottenuto sui grandi appalti, che io chiamavo tangenti, dopo il carcere è alle mie spalle. Mai fatto traffici di droga e ho sempre rispettato la scelta dei miei ex compagni di collaborare con la giustizia».

Ha rispetto anche per Alfieri?
«Certo. In un confronto, proprio Carmine Alfieri cercò di convincermi a fare la sua stessa scelta senza riuscirci. Ho un passato che pesa, come il mio cognome, ma non è giusto che sia accompagnato sempre da sospetto e diffidenza sulla mia vita attuale. In carcere si cambia, non sono la stessa persona di tanti anni fa».

Di cosa vive, oggi?
«Del mio lavoro e dei beni ereditati, beni puliti e non confiscati, di una famiglia che ad Afragola era benestante».

Ultimo aggiornamento: 21 Dicembre, 08:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA