Inadeguatezza delle infrastrutture nelle Due Sicilie
Il grave problema della mancanza delle infrastrutture nel Regno delle Due Sicilie concerneva come è risaputo la rete ferroviaria. Collegamenti via rotaie erano insufficienti ed incerti nelle pochissime tratte esistenti così che il direttore dell’Osservatorio Astronomico di Napoli, rilevando che le 400 miglia da Londra a Glasgow erano percorse in trenta ore di viaggio con una spesa di sette ducati e mezzo, si chiedeva: “Mi dica in grazia, quante ore occorrono ad un galantuomo per andar da Teramo in Abruzzo a Reggio nelle Calabrie, e quanti ducati deve spendere, oltre all’inevitabile martirio di slogarsi le ossa, anche col rischio probabile di rompersi addirittura la nuca! Ecco perchè noi ci moviamo come le chiocciole e ci sentiamo inabili a magnanimi sforzi. L’esercizio del moto nelle facoltà fisiche ingenera del pari il moto nelle morali, e ne nascono le grandi cose che onorano le nazioni” (E. Capacci, Memoria sulla migliore costruzione de’ carri, in La Campania-Industriale, cit. in A. Marra, La società economica di Terra di Lavoro). Il Regno delle Due Sicilie, primo ad inaugurare una tratta, la nota Napoli-Portici del 1839, al momento dell’annessione non aveva che 110 chilometri di strada ferrata su un totale di 1707 chilometri per tutti gli stati italiani; la Sicilia addirittura ebbe la sua prima, brevissima, ferrovia solo nel 1863.
Ma la questione nella sua complessità fu al centro della Relazione del Ministero dei Lavori Pubblici, Stefano Jacini (L’amministrazione dei lavori pubblici in Italia dal 1860 al 1867). Vi veniva denunciata non solo la carenza di tratte ferroviarie, ma anche di strade e porti.
Il grosso dei trasporti commerciali avveniva su mulattiere. Nel 1860 esistevano infatti nel Regno delle Due Sicilie 1848 comuni di cui solamente 227 erano collegati da strade. Gli altri 1621 si servivano di piste per il bestiame. La situazione peggiore si rilevava in Basilicata, in Calabria ed in Sicilia, dove la viabilità era affidata quasi soltanto ai tratturi (trazzere in Sicilia) ovvero i sentieri usati per la migrazione del bestiame. Esisteva un’unica strada che attraversava l’intero territorio continentale del reame borbonico, da Napoli a Bari, ma essa non poteva essere percorsa col maltempo. In Sicilia, l’unica strada esistente (non una trazzera) era quella da Palermo a Messina, che però non era percorribile col maltempo, a meno di non voler passare a guado i torrenti.
Per quanto concerne i porti, le principali cure da parte del governo borbonico erano state rivolte al porto militare di Napoli, e lavori di ammodernamento avevano riguardato Gaeta, Ponza, Ventotene, Pozzuoli, Nisida e Ischia, altri porti vessavano in condizioni misere con opere di modernizzazione progettate e non realizzate se non in minima parte. Dalle spiagge del Tirreno fino a Reggio di Calabria, il solo porto esistente era quello di Salerno, in Puglia giaceva interrato il porto di Brindisi, peggio ridotti gli altri sino a Bari, mentre nel tratto di costa da Manfredonia al Tronto non esisteva alcun vero porto. Egual discorso valeva per la Sicilia dove, ad esclusione dei porti di Messina, Palermo e Trapani, i porti erano ridotti in malo modo, interrati quelli di Agrigento e Trapani, di pericoloso accesso quello di Catania, mancanti di banchine di approdo gli altri.
Jacini non si fermò a questo e denunciò l’inadeguatezza dei Fari Borbonici e del Sistema postale.
Sui fari affermò: “…Fino al 1821, il Governo borbonico creò una Commissione per studiare e proporre un sistema generale d’illuminazione delle coste napoletane la quale fu successivamente ampliata ed incaricata di estendere le sue indagini alla Sicilia. Ma poi in fatto, volendosi dal Governo che anche per i nuovi fari le spese fossero nella massima parte sostenute dalle provincie e dai comuni, si compilarono molti progetti, ma i fari costruiti ed attivati (nella maggior parte in vicinanza di Napoli) furono scarsissimi, e risultavano affatto insufficienti a provvedere efficacemente alla illuminazione delle lunghissime coste delle provincie al di qua del Faro e della Sicilia…”.
Grave era pure la condizione del Sistema Postale Borbonico: “…Nel 1859, le provincie dell’Italia centrale e superiore possedevano 1256 uffizi postali, ed invece in tutto il regno delle Due Sicilie questi uffizi sommavano a 276 soltanto; mentre nelle provincie subalpine, nelle lombarde e nelle toscane mercè il sussidio delle vie ferrate, lo scambio delle corrispondenze si faceva più volte al giorno, fra tutti i paesi posto lungo le linee ferroviarie, a Napoli il servizio dei sette corrieri che dalla capitale andavano alle provincie, percorrendo strade cosidette consolari, aveva luogo soltanto tre volte la settimana; in Sicilia pure vi erano due o al più tre corse postali alla settimana fra le principali città dell’isola, e quanto ai servizi marittimi essi limitavansi ad una corsa settimanale fra Napoli e Palermo, e fra Napoli e Messina, e ad un’altra due volte al mese intorno all’isola di Sicilia. Nel 1859, nelle provincie subalpine, il numero di lettere impostate saliva a 17,430,000 mentre in tutte le provincie meridionali, con una popolazione quasi doppia, esso ammontò appena ad 8 milioni; e sì che in queste ultime la tassa delle lettere affrancate era di soli centesimi 81,2, mentre nel regno sardo il porto di una lettera semplice era tassato a 20 centesimi”.
Altro problema era quello dei ponti e della navigabilità dei fiumi. Giuseppe de Luca (Il reame delle due Sicilie, Napoli 1860) scrive che quasi nessuno dei fiumi era “navigabile, se togli qualcheduno de’ più grandi, presso alla sua foce, e solo con qualche burchielio da pesca o scafa da traghettere”. L’autore conta due ponti sul Biferno, uno sul Tiferno, uno sul Bovino, uno sul Volturno, uno sul Garigliano, due sul Candelaro. L’assenza di ponti risultava di grave impedimento per lo sviluppo delle attività produttive e del commercio. Il Volturno, per esempio, che allo sciogliersi delle nevi o in occasione di abbondanti piogge, usciva dal proprio alveo ed inondava la pianura circostante, distruggendo tutto, si traghettava in più punti ancora con scafe o zattere di legno. Le più grandi raggiungevano una lunghezza di 50 palmi ed una larghezza di 24 consentendo il passaggio di carrozze e carri. Le più importanti scafe erano quelle presso Pietramala, Triflisco, Grazzanise e Castelvolturno ed un ponte di battelli era stato costruito presso Cancello Arnone, ma funzionava solo d’estate perchè le frequenti piene lo travolgevano sistematicamente.
Il nodo della questione fu colto dal meridionalista Giustino Fortunato che, in “Il mezzogiorno e lo stato italiano”, osservava come il bilancio del Regno delle Due Sicilie riservasse solo esigue somme ai pubblici servizi, alla sanità, all’istruzione, poiché quasi tutto era assorbito dalle spese di corte e dell’esercito mentre mancavano scuole, strade e porti: “Eran poche, sì, le imposte, ma malamente ripartite e tali nell’insieme da rappresentare una quota di lire 21 per abitante, che nel Piemonte, la cui privata ricchezza molto avanzava la nostra, era di lire 25,60. E, del resto, se le imposte erano quaggiù più lievi assai meno vi si spendeva per tutti i pubblici servizi. L’esercito, e quell’esercito!, assorbiva pressoché tutto; le città mancavano di scuole, le campagne di strade, le spiagge di approdi; e i traffici andavano ancora a schiena di giumenti, come per le plaghe d’Oriente”.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
In copertina mappa di Sessa Aurunca tratta dalle opere dell’abate Pacichelli. Fonte foto: dalla rete
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