Le due Italie – In principio fu la frattura
Alla vigilia dell’Unità d’Italia cosi scriveva Cavour: «L’Italia del Nord è fatta, non ci sono più né Lombardi né Piemontesi Toscani né Romagnoli: noi siamo tutti Italiani; ma ci sono ancora i Napoletani».
Garibaldi aveva appena consegnato a Vittorio Emanuele le Due Sicilie e già la questione meridionale si insinuava, come una malattia congenita, nel corpo della neonata nazione. Fin dal primo giorno, convissero due Italie, un Nord progredito, avviato allo sviluppo industriale, e un Sud arretrato, oppresso dal feudalesimo agrario. Le interpretazioni della frattura si stabilizzarono nei decenni fra le celebrazioni unitarie e la fine del secolo, ponendo le basi di una polemica che produrrà sia una rivista come Nord e Sud, sia le scritte murali «Forza Etna!».
Siamo nel 1861 quando lo storico napoletano Pasquale Villari, allievo di De Sanctis, inizia quelle Lettere meridionali che raccolte in volume (1875) sono unanimemente considerate l’atto di nascita del meridionalismo, cioè di quel movimento d’opinione che vede nella questione meridionale una grande questione nazionale. «Finché dura lo stato presente di cose – scriveva Villari – la camorra è la forma naturale e necessaria della società che ho descritto. Mille volte estirpata, rinascerà mille volte».
E a proposito del brigantaggio: «Esso certamente può dirsi la conseguenza d’una questione agraria e sociale che travaglia quasi tutte le province meridionali». Che cosa si doveva dunque fare? La tesi di Villari è che i «forti» si assumano il patrocinio dei «deboli»; vale a dire, il Nord trasferisca risorse al Sud. E’ l’embrione della politica per lo sviluppo produttivo delle aree meridionali, che nel seconde dopoguerra ha avuto l’interprete più autorevole in Pasquale Saraceno.
Al meridionalismo liberale di Villari si contrappone il meridionalismo radicale di Giustino Fortunato, nato in Lucania, a Rionero in Vulture, testimone della miseria dei contadini meridionali e dell’ingiustizia che rappresenta: «Qui si parla spesso e dovunque di democrazia, ma il più grande equivoco regna sul riguardo. Democrazia sì, ma nel significato spartano: democrazia per gli uomini, non per gli iloti; e qui gli iloti sono appunto i contadini».
L’analisi di Fortunato ispirerà il meridionalismo della Sinistra italiana, dai Quaderni di Gramsci all’autunno caldo: il Sud sfruttato dal Nord capitalista.
«I milioni dati in premio a un gran numero di fabbriche e di cantieri dell’alta Italia sono estorti, nella massima parte, alle povere moltitudini del Mezzogiorno». Nello scontro di un secolo fa si ritrovano anche i prodromi della polemica razzista. Citiamo per tutti il criminologo (siciliano!) Alfredo Niceforo, per il quale l’arretratezza del Sud è dovuta alla «qualità, per così dire cristallizzabile, della razza che popolò quei paesi, razza assolutamente priva di quella plasticità che fa mutare ed evolvere la coscienza sociale».
Nel Novecento verranno Salvemini, Colajanni, Gramsci, Dorso, Giuseppe Di Vittorio e Zanotti Bianco, Carlo Levi, Danilo Dolci, Rossi Doria e Francesco Compagna. Molte cose cambieranno; nascerà il Sud «a macchia di leopardo». Ma un ammonimento rivolto ai nordisti dal moderato Pasquale Villari continua a suonare sinistra mente profetico: «Non avete più scampo: o voi riuscite a rendere noi civili o noi riusciremo a render barbari voi». (a. p.)
LaStampa 16/05/1990 – numero 111 pagina 1
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