La storia del Sud secondo Carmine Pinto. La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870
di Lorenzo Peluso.
Alle stampe l’ultimo lavoro editoriale di Carmine Pinto: La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870. Pinto è professore ordinario di Storia Contemporanea presso l’Università degli Studi di Salerno. Ha lavorato sui sistemi politici del Novecento, attualmente si occupa di guerre civili e movimenti nazionali nel XIX secolo. Ha insegnato in università europee e latino-americane, è membro di comitati di redazione di riviste italiane ed internazionali. Dirige il Centro di Ricerca sui conflitti in Età Contemporanea e il programma di Dottorato di Ricerca in Studi Letterari, Linguistici e Storici dell’Università di Salerno.
Prof. Carmine Pinto, Lei è autore del libro La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870 edito da Laterza: il brigantaggio fu l’eroica resistenza meridionale al colonialismo sabaudo o la sfida allo Stato di bande criminali?
Il brigantaggio era un fenomeno plurisecolare. Il banditismo rurale era del resto largamente diffuso in tutte le società europee e non, fino all’Antico regime, per molti aspetti ancora durante il XX secolo inoltrato. Nel Mezzogiorno italiano il brigantaggio era sempre esistito in questa forma, assumendo colori e bandiere politiche nelle grandi fratture della storia del regno (come alla fine del Cinquecento o alla metà del Seicento). Nel mondo feudale il banditismo era spesso attore delle lotte tra fazioni e gruppi territoriali. Pertanto, quando negli anni Novanta del Settecento le conseguenze della guerra e della rivoluzione in Francia e in Europa coinvolsero il regno di Napoli, il banditismo diventò ancora una volta un soggetto politico. Il brigantaggio (la definizione si affermò in quell’epoca) fu uno degli strumenti operativi della controrivoluzione borbonica, all’interno di un contesto di relazioni e mentalità ancorate all’Antico regime. Come brigantaggio politico fu utilizzato affiancando l’esercito controrivoluzionario del cardinale Ruffo nel 1799, poi come forza irregolare nel Decennio francese. Nell’immaginario legittimista diventerà una componente del patriottismo borbonico. Nei decenni successivi, mentre molti capi di formazioni del Decennio entravano nell’establishment borbonico, il fenomeno recuperò le dimensioni tradizionali di banditismo rurale. Pertanto, quando guerra e rivoluzione travolsero ancora una volta il regno nel 1860, il brigantaggio politico diventò una delle opzioni per la resistenza borbonica al nuovo stato italiano. In conclusione, rispetto alla domanda, il brigantaggio non fu né una cosa, né l’altra. Fu una delle espressioni politiche, sociali e criminali della crisi dell’unificazione nel Mezzogiorno, condizionato da eredità e tradizioni di lungo periodo.
Come si sviluppò la guerra per il Mezzogiorno e chi ne furono i protagonisti?
La guerra iniziò con la spedizione di Garibaldi in Sicilia e la successiva rivolta nell’isola. Nel Mezzogiorno giunse nell’estate del 1860, quando lo sbarco garibaldino si intrecciò alla rivoluzione organizzata dagli unitari meridionali. Il vero regista era il conte di Cavour, che porto a termine il disegno unitario. La rivoluzione ebbe successo, ma nel Mezzogiorno si mobilitò un forte resistenza all’unificazione, intorno alla monarchia borbonica e a settori importanti dell’alto clero. Il libro racconta la guerra, che continuò per l’inverno come conflitto civile e nazionale tra opposti progetti di stato e di patria. I borbonici continuarono a resistere anche negli anni successivi. Fu così che, nell’esplosione generale del regno, furono organizzati gruppi e bande che richiamarono il vecchio brigantaggio. Nel sud però buona parte delle élite e dei gruppi politici meridionali, oltre che delle società provinciali, si erano decisamente schierate per l’unificazione, saldandosi nel più ampio movimento nazionale italiano. Il libro analizza un conflitto asimmetrico tra il nuovo stato italiano e le sue componenti politiche, particolarmente radicate nel Mezzogiorno (Destra e Sinistra), contro i borbonici e le bande dei briganti delle province napoletane. Entrambi i contendenti erano sostenuti da una vasta schiera di alleati nella penisola ed in Europa: nazioni, intellettuali, gruppi politici, istituzioni religiose. In ogni caso, pur all’interno di uno scenario dove gli attori erano molteplici, una vera e propria folla, i protagonisti centrali erano due: il movimento risorgimentale italiano e la componente borbonico-legittimista delle province napoletane.
Quali vicende segnarono il sanguinoso conflitto tra borbonici e italiani?
La guerra regolare durò nove mesi, dalla spedizione in Sicilia alla resa di Gaeta. Negli anni successivi il conflitto si frammentò. Nel libro si individuano alcune linee di sviluppo. L’azione politico cospirativa borbonica e la repressione delle forze di sicurezza italiane; la guerriglia politico-criminale dei briganti e l’azione di contro-insurrezione di militari e volontari italiani; la guerra di idee, di propaganda e diplomatica, combattuta su scala italiana ed europea. Si trattò però di un conflitto limitato, che non aveva né linee di fronte né istituzioni completamente coinvolte. Se nei primi due-tre anni mantenne forti elementi di politicizzazione, nella fase successiva finì per moltiplicare rapidamente i suoi caratteri di frammentazione, accentuando la natura criminale del brigantaggio e i caratteri di azione di polizia delle forze di sicurezza italiane.
Quella combattuta tra borbonici e italiani non fu una guerra tradizionale: briganti, truppe regolari italiane e volontari meridionali si sfidarono in una guerriglia sanguinosa. Quali furono i principali teatri dei combattimenti?
La prima parte della guerra fu condizionata dal controllo dei centri principali (Palermo e Napoli), si chiuse in pochi mesi, con la loro conquista da parte dei rivoluzionari filo-unitari. L’offensiva sul Volturno dell’esercito di operazioni borboniche, respinta dall’Esercito meridionale garibaldino, fu l’unico tentativo di mettere in discussione la tenuta della rivoluzione nella capitale. Da quel momento, per pochi mesi, le operazioni si concentrarono in quella che era chiamata la Terra di Lavoro, ora tra Campania e Lazio, e nelle province del confine superiore del Regno delle Due Sicilie (gli Abruzzi). Invece la guerra di brigantaggio non ebbe teatri di operazioni regolari né battaglie importanti. Il libro racconta una guerra dove il ruolo (e il controllo) della popolazione civile fu centrale e prioritaria. Furono coinvolte tutte le province meridionali, ma con gradi e intensità differenti. Le operazioni non coinvolsero mai direttamente le città ed i centri più importanti (tranne che per attività di mobilitazione politica e logistica) e progressivamente si concentrarono nelle fasce appenniniche del Mezzogiorno interno.
Si può affermare che con la fine del brigantaggio politico nacque la questione meridionale?
La guerra fece emergere per la prima volta una lettura delle province napoletane come una delle arre più problematiche del nuovo stato. Funzionari, militari, intellettuali, politici finirono per costruirne narrazioni e rappresentazioni, analisi strutturati o stereotipi destinati a perdurare. Maturò una larga convergenza, all’interno del movimento nazionale italiano, nell’individuare nel contesto sociale le principali ragioni del fenomeno. Era una spiegazione che rispondeva tanto a questioni di congiuntura politica (condannare le antiche istituzioni borboniche), quanto al reale impatto con le province, dove emersero differenze e caratteri al centro di studi importanti, anche recenti. Allo stesso tempo il conflitto determinò una prima seria di discussioni, studi, analisi inseriti in una prospettiva più ampia. Negli anni Settanta iniziarono le prime inchieste sulla condizione sociale delle ex province napoletane e siciliane, soprattutto sul contesto dell’agricoltura, dei beni demaniali e dei ceti rurali. Sarà nella fase successiva che intellettuali come Giustino Fortunato, Antonio De Viti De Marco, Napoleone Colajanni, Gaetano Salvemini fecero definitivamente del confronto sul Mezzogiorno un problema nazionale italiano. Saranno seguiti poi dalla seconda generazione (Giorgio Amendola, Antonio Gramsci, Francesco Saverio Nitti) che una questione centrale del processo di unificazione, all’interno del discorso e della tradizione unitaria risorgimentale
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