Egr. direttore,
in occasione del settantacinquesimo anniversario del vergognoso e tragico 8 settembre, vorrei ricordare alcuni fatti (poco celebrati dalla memorialistica ufficiale) riguardanti gli italiani internati e prigionieri nei campi degli alleati che rendono onore ai nostri soldati e possono far capire meglio ai giovani il periodo in questione e lo spirito dei tempi. Il primo avvenne in Sud Africa, a Nanyuki, alle pendici del monte Kenya. Stanchi di “sentirsi in conserva” ritenendo impossibile qualsiasi tentativo di fuga verso l’Italia o il neutrale Mozambico, tre amici, il triestino Felice Benuzzi, il genovese Giovanni “Giuàn” Balletto, e il camaiorese Vincenzo Barsotti, evadono, con tutti i rischi del caso per scalare la vetta del monte Kenya e piantarci il tricolore. “Un’impresa meravigliosamente folle: conquistare una montagna di 5000 metri per il gusto di beffare i carcerieri e ribadire il diritto e la voglia di libertà. Costruirono un’attrezzatura di fortuna: le piccozze erano ricavate da martelli, i ramponi furono fatti battendo a freddo pezzi d’acciaio recuperati da una discarica e legati con frammenti di filo spinato; le corde furono intrecciate con le reti dei giacigli, le coperte diventarono guanti e giacche, le scarpe da roccia avevano la suola d’agave da branda”. La bandiera italiana è barattata al mercato nero del campo. Il 24 gennaio 1943 i tre evadono, sfidando le pallottole delle guardie, le belve, la natura ostile. La scalata è terribile, rinunciano alla vetta principale ed optano per la seconda, un mostro di 4985 metri. Alzano il tricolore e lasciano una bottiglia con un messaggio a certificare l’impresa. Il 6 febbraio “il tricolore sventola libero nell’azzurro, in direzione nord, verso l’Italia…e piansi, piansi come un bambino”. Si ripresentarono al campo il 10 febbraio in condizioni pietose ma con orgoglio e fierezza indicibili. Le guardie sono strabiliate, li curano e li mettono in isolamento. La notizia fa il giro del mondo. Gli inglesi furono costretti a mandare una spedizione per togliere la bandiera italiana dalla vetta di Punta Lenana.
Nel campo di prigionia di Eldored, dopo lunghe discussioni, si decide che è meglio uscire via terra dal Kenya, attraversare il Tanganika, e rifugiarsi nel Mozambico portoghese. Il 10 febbraio 1943 il conte Vanni Corsini, cognato del principe Junio Valerio Borghese, i tenenti Franco Tonelli, Mario Bonioli, il capitano Amedeo Marsaglia e l’allievo ufficiale Girolamo Nucci evadono. Spacciandosi per l’irascibile e scostante captain J.A. Dickson — in prioritaria missione per il Sud Africa con prigionieri al seguito — l’avventuroso toscano sfrutta la sua perfetta conoscenza dell’inglese e l’atteggiamento da sussiegoso figlio d’Albione per superare tutti i posti di blocco ed i controlli. La recita riesce. La fuga, a bordo di uno Chevrolet, preso in comodato gratuito temporaneo al nemico, è un susseguirsi di colpi di scena, esilaranti contrattempi, trucchi ingegnosi per procurarsi il carburante e qualche pezzo di ricambio indispensabile a far girare il motore di un riottoso automezzo. Durante le imprevedibili soste del mezzo, per non essere controllati, davano ad intendere di star espletando impellentissime e”profluviali” attività fisiologiche. L’evasione, da sfida goliardica, diventa un’avventura straordinaria. La beffa si conclude, felicemente, dopo aver attraversato 2800 KM in territorio nemico, il 13 marzo, ad un sperduto posto di frontiera mozambicano.
Tra i diecimila prigionieri in India che mal sopportavano l’ospitalità di Sua Maestà Britannica, c’era anche Elios Toschi, della Decima Mas, inventore, con Teseo Tesei del Siluro a Lenta Corsa, conosciuto come maiale. Toschi, catturato al largo di Tobruk il 30 settembre 1940 in seguito all’affondamento del sommergibile Gondar, finì in India ad Ahmednagar, poi a Ramgarh ed in ultimo a Yol che era un campo per i recidivi con la tendenza all’evasione. Da qui, con una storia alla Kipling, col comandante anconetano Camillo Milesi Ferrett i scappa una prima volta, ma tentando il rimpatrio attraverso l’Himalaya viene ripreso, mentre Milesi raggiunge l’isola portoghese di Goa. Al secondo tentativo il Capitano del Genio Navale Elios Toschi si accontentò di raggiungere un territorio neutrale portoghese.
Queste tre sono fughe celebrate da libri ed abbastanza note fra gli addetti ai lavori, ma ce ne furono altre. Ultimamente ho appreso di quelle di Dante e Giovanni Muraro, catturati nell’Africa Orientale Italiana, dove erano giunti nel 1935. Esclusa la collaborazione con gli inglesi, il 9 febbraio del 1943, furono bloccati nei pressi di Massaua nel tentativo di una rocambolesca fuga attraverso il mar Rosso, a bordo di un motoscafo a reazione, costruito da loro nella falegnameria asmarina di un compaesano-Vittorio Rigoni, padre dei titolari dell’omonima industria di marmellata. Inviati nella Rhodesia del Sud, a Gatooma, i due fratelli ci riprovarono, senza viveri, poiché la provvista di pane, buttata giorni prima oltre i reticolati, era ammuffita a causa della pioggia. Dopo 350 Km a piedi, tra ruggiti notturni di leoni, soffi e sterco d’elefanti, febbre, coi piedi piagati, raggiunsero il confine col Mozambico e là “Giovanni scrisse un biglietto di beffa verso gl’inglesi e lo appese ad un ramo”. Giunti ad un collegio isolato dove studiavano i figli dei proprietari di farm, distanti 50 KM l’una dall’altra, furono ricevuti dal direttore, dichiaratosi boero, che strappò e calpestò una foto di Churchill, dicendosi ammiratore dell’Italia. Nell’attesa della benzina, per recarsi presso la polizia del Mozambico, sentirono uno strano giro di telefonate. Il direttore li fece mangiare e gli offrì un letto: stremati, furono svegliati di soprassalto da inglesi in abiti civili. Dopo i 28 giorni regolamentari d’isolamento furono mandati nel 5° Extension Camp, campo punitivo, per italiani considerati irriducibili, con doppie file di reticolati ad alta tensione e segnalato da cartelli con scritto Criminal Political Camp. Giovanni e Dante Muraro lavorarono anche alla costruzione della Italian Chapel of S. Francis del suddetto campo nei pressi di Fort Vittoria , attualmente ristrutturata, ed inserita tra i monumenti nazionali dello Zimbawe. Sbarcarono a Napoli il 4 gennaio del 1947, dopo un viaggio da “deportati”.
Distinti saluti
Il presidente di Storia Memoria Identità
Giorgio Natale
Brescia tel.0302002793