Storia dell’emigrazione italiana
Dal 1861 circa 30 milioni di italiani hanno cercato fortuna all’estero. Accolti dagli stessi pregiudizi che oggi spesso noi riserviamo agli immigrati che arrivano nel nostro Paese.
Tra il 1861 e il 1985 dall’Italia sono partiti quasi 30 milioni di emigranti. Come se l’intera popolazione italiana di inizio Novecento se ne fosse andata in blocco. La maggioranza degli emigranti italiani, oltre 14 milioni, partì nei decenni successivi all’Unità di Italia, durante la cosiddetta “grande emigrazione” (1876-1915).
Emigrati italiani impiegati nella costruzione di una ferrovia negli Stati Uniti (1918). | Internet Archive Book Images/WikiMedia
Grande emigrazione. Intere cittadine, come Padula in provincia di Salerno, videro la loro popolazione dimezzarsi nel decennio a cavallo tra ‘800 e ‘900. Di questi quasi un terzo aveva come destinazione dei sogni il Nord America, affamato di manodopera.
A partire non erano solo braccianti. Gli strati più poveri della popolazione in realtà non avevano di che pagarsi il viaggio, per questo tra gli emigranti prevalevano i piccoli proprietari terrieri che con le loro rimesse compravano casa o terreno in patria.
Manifesto realizzato nel 1886 dalla Stato federato brasiliano di San Paolo, destinato ai potenziali emigranti italiani in Brasile. | wikiMedia
Le destinazioni. New York e gli States le destinazioni più gettonate. Ma non le uniche. Così come non si partiva solo dal Sud Italia. I genovesi ad esempio ben prima del 1861 partirono per l’Argentina e l’Uruguay.
E, proprio come gli immigrati oggi che giungono da noi, non iniziavano l’avventura con tutta la famiglia: quasi sempre l’emigrazione era programmata come temporanea e chi partiva era di solito un maschio solo.
A fare eccezione fu solo la grande emigrazione contadina di intere famiglie dal Veneto e dal Meridione verso il Brasile, specie dopo l’abolizione in quel paese della schiavitù (1888) e l’annuncio di un vasto programma di colonizzazione.
Viaggi della speranza. Di solito chi partiva dalle regioni del Nord si imbarcava a Genova o a Le Havre in Francia. Chi partiva dal Sud invece si imbarcava a Napoli. Il rapporto tra passeggeri di prima classe e di terza era di 5mila a 17mila e le differenze di trattamento per questi ultimi abissali: un sacco imbottito di paglia e un orinatoio ogni 100 persone erano gli unici comfort di un viaggio che poteva durare anche un mese.
L’approdo dei bastimenti di emigranti è l’isola di Ellis Island, nella baia di New York. In molti muoiono durante il viaggio e quelli che sopravvivono vengono esaminati scrupolosamente dalle autorità sanitarie: si teme che gli italiani portino malattie, come il tracoma (un’infezione degli occhi che rende ciechi). Alle visite mediche segue una visita psico-attitudinale. Chi non supera i controlli, che possono durare anche tre giorni (in cella), viene marchiato con una X sui vestiti e rimandato indietro.
Sui documenti rilasciati agli italiani, accanto alla scritta white (bianco), che indica il colore della pelle, a volte c’è un punto interrogativo: è un altro indice del razzismo che devono subire gli italiani da una parte della società americana. | Contrasto
Molti morivano prima di vedere il Nuovo Mondo. Una volta arrivati, superato l’umiliante filtro dell’ufficio immigrazione di Ellis Island, iniziava la sfida per l’integrazione.
Se in Sud America conquistarsi un posto nella nuova patria fu più facile, negli Stati Uniti era una faticaccia. I nostri connazionali preferivano così ghettizzarsi nei quartieri italiani e frequentare scuole parrocchiali, rallentando così la diffusione dell’inglese nelle comunità.
Pregiudizi. Negli Stati Uniti che da poco avevano abolito la schiavitù si diceva che gli italiani non erano bianchi, “ma nemmeno palesemente negri”. In Australia, altra destinazione, erano definiti “l’invasione delle pelle oliva”. E poi ancora “una razza inferiore” o una “stirpe di assassini, anarchici e mafiosi”. E il presidente Usa Richard Nixon intercettato nel 1973 fu il più chiaro di tutti. Disse: “Non sono come noi. La differenza sta nell’odore diverso, nell’aspetto diverso, nel modo di agire diverso. Il guaio é che non si riesce a trovarne uno che sia onesto”.
Tra il 1892 e il 1954 (anno della sua chiusura), furono circa 20 milioni gli uomini, le donne e i bambini che fecero tappa nell’immigration point di Ellis Island, un piccolo isolotto poco distante da Manhattan, dove tutti gli immigrati venivano controllati e accettati. | Augustus Francis Sherman / New York Public Library / Dynamichrome / Via digitalcollections.nypl.org
Dazi e frontiere. Negli Usa l’immigrazione dall’Italia si fermò con la Prima guerra mondiale. Nel 1921 l’Emergency quota act impose un tetto al numero di immigrati dall’Europa dell’Est e del Sud in quanto si riteneva che popoli come quelli italiani fossero meno assimilabili. Solo con la Seconda guerra mondiale, grazie all’arruolamento nell’esercito statunitense di molti italoamericani l’integrazione fece concreti passi avanti.
.. Forse anche per questo nel secondo dopoguerra ci fu una ripresa dell’emigrazione dall’Italia agli Usa. Ma ormai si era aperta una nuova rotta verso l’Europa del Nord: Francia, Germania e Belgio le mete più gettonate.
Eppure nemmeno qui i nostri connazionali furono accolti a braccia aperte, anche perché il 50% partiva come clandestino, senza lavoro. Sfidando leggi e pregiudizi e assediando frontiere nell’irriducibile speranza di garantirsi una vita migliore.
Quando i migranti eravamo noi: le foto degli europei che migravano in America .
https://www.focus.it/cultura/storia/migranti-storia-emigrazione-italiana